
Si crescer
Il vocabolario dell’economia torna a parole gradite: finisce la recessione, inizia la ripresa, il peggio è passato. Dal dicembre 2006, quando, quasi inosservato, si arrestò un principale motore dell’espansione economica mondiale (la bolla immobiliare, ossia l’ascesa irragionevole dei prezzi delle case in America), non è la prima volta che si parla di «uscita dalla crisi». Ma che significato dare a una tale espressione?
Affermare che si è prossimi al punto in cui l’economia riprende a crescere è nello stesso tempo azzardato e fuori luogo. Azzardato perché i cosiddetti punti di svolta sono sempre difficili da individuare, e lo sono soprattutto quando il convalescente organismo economico è talmente debole da poter ricadere in catalessi anche per fatti irrilevanti in circostanze normali: le perdite di una banca, la chiusura di un’impresa, un nuovo scandalo finanziario. Fuori luogo perché interpretando gli attuali movimenti dell’economia come fasi di un ciclo economico, parlando perciò di recessione e di ripresa, si fraintende il significato di ciò che sta avvenendo. La crisi riguarda la crescita, il debito e la struttura dell’economia, non il suo andamento ondoso.
Non possiamo capire il dopo- crisi se non capiamo il prima , che conviene dunque ricapitolare. La bolla immobiliare aveva spinto l’intero mondo in una corsa che pareva senza fine. I proprietari di case credevano, soprattutto in America, che i prezzi sarebbero saliti sempre e, credendosi in possesso di una vena aurifera, s’indebitavano e spendevano. Spendevano per beni fabbricati da operai istruiti e poco pagati di Paesi asiatici, i quali accumulavano — in cambio — titoli in dollari emessi in abbondanza dal governo Usa. La finanza si arricchiva in un giro di denaro in cui i Paesi poveri prestavano ai ricchi. La percezione del pericolo era offuscata dall’insensata credenza che potesse continuare così, dal mito della razionalità del mercato e da ingegneri finanziari che inventavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembrava scomparire dal sistema come la donna dall’armadio del prestigiatore.
Più di una volta, nei passati vent’anni, simili bolle speculative si erano formate ed erano poi scoppiate: prima delle case, i titoli high tech ; prima ancora, il debito dei Paesi emergenti. Ma il buio creato dallo spegnersi di un botto veniva illuminato poco dopo dall’accendersi del successivo e ogni volta si riprendeva l’andazzo, passando da una bolla a un’altra.
Sarà così anche ora? Commetterebbe un errore chi lo ritenesse possibile o l’auspicasse: sia esso governo, banca centrale, impresa o famiglia. Uscire dalla crisi significa arrestare la caduta, non però tornare sulla strada che ha portato al baratro.
Quello immobiliare è, dovrebbe essere, il gran bengala, il botto finale. La crisi pone al centro delle preoccupazioni la riduzione del debito, non più la ripresa del consumo. Certo, la produzione dei Paesi ricchi cesserà di precipitare e per ciò stesso riprenderà a crescere. Certo, l’economia mondiale dispone di altri motori, dei quali pure converrà parlare. Ma sarà crescita lenta, frenata dalla riluttanza a fare nuovi debiti e dalla necessità di ridurre quelli vecchi. Ci vorranno anni per smaltire il passato. E tutta l’economia mondiale risentirà del basso regime a cui girerà il motore dei Paesi ricchi.
Per la politica economica la vera sfida inizia nel momento della ripresa. Il difficile viene adesso.
Il vocabolario dell’economia torna a parole gradite: finisce la recessione, inizia la ripresa, il peggio è passato. Dal dicembre 2006, quando, quasi inosservato, si arrestò un principale motore dell’espansione economica mondiale (la bolla immobiliare, ossia l’ascesa irragionevole dei prezzi delle case in America), non è la prima volta che si parla di «uscita dalla crisi». Ma che significato dare a una tale espressione?
Affermare che si è prossimi al punto in cui l’economia riprende a crescere è nello stesso tempo azzardato e fuori luogo. Azzardato perché i cosiddetti punti di svolta sono sempre difficili da individuare, e lo sono soprattutto quando il convalescente organismo economico è talmente debole da poter ricadere in catalessi anche per fatti irrilevanti in circostanze normali: le perdite di una banca, la chiusura di un’impresa, un nuovo scandalo finanziario. Fuori luogo perché interpretando gli attuali movimenti dell’economia come fasi di un ciclo economico, parlando perciò di recessione e di ripresa, si fraintende il significato di ciò che sta avvenendo. La crisi riguarda la crescita, il debito e la struttura dell’economia, non il suo andamento ondoso.
Non possiamo capire il dopo- crisi se non capiamo il prima , che conviene dunque ricapitolare. La bolla immobiliare aveva spinto l’intero mondo in una corsa che pareva senza fine. I proprietari di case credevano, soprattutto in America, che i prezzi sarebbero saliti sempre e, credendosi in possesso di una vena aurifera, s’indebitavano e spendevano. Spendevano per beni fabbricati da operai istruiti e poco pagati di Paesi asiatici, i quali accumulavano — in cambio — titoli in dollari emessi in abbondanza dal governo Usa. La finanza si arricchiva in un giro di denaro in cui i Paesi poveri prestavano ai ricchi. La percezione del pericolo era offuscata dall’insensata credenza che potesse continuare così, dal mito della razionalità del mercato e da ingegneri finanziari che inventavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembrava scomparire dal sistema come la donna dall’armadio del prestigiatore.
Più di una volta, nei passati vent’anni, simili bolle speculative si erano formate ed erano poi scoppiate: prima delle case, i titoli high tech ; prima ancora, il debito dei Paesi emergenti. Ma il buio creato dallo spegnersi di un botto veniva illuminato poco dopo dall’accendersi del successivo e ogni volta si riprendeva l’andazzo, passando da una bolla a un’altra.
Sarà così anche ora? Commetterebbe un errore chi lo ritenesse possibile o l’auspicasse: sia esso governo, banca centrale, impresa o famiglia. Uscire dalla crisi significa arrestare la caduta, non però tornare sulla strada che ha portato al baratro.
Quello immobiliare è, dovrebbe essere, il gran bengala, il botto finale. La crisi pone al centro delle preoccupazioni la riduzione del debito, non più la ripresa del consumo. Certo, la produzione dei Paesi ricchi cesserà di precipitare e per ciò stesso riprenderà a crescere. Certo, l’economia mondiale dispone di altri motori, dei quali pure converrà parlare. Ma sarà crescita lenta, frenata dalla riluttanza a fare nuovi debiti e dalla necessità di ridurre quelli vecchi. Ci vorranno anni per smaltire il passato. E tutta l’economia mondiale risentirà del basso regime a cui girerà il motore dei Paesi ricchi.
Per la politica economica la vera sfida inizia nel momento della ripresa. Il difficile viene adesso.