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Il rapporto dell’Italia con l’ambizione nazionale è sempre stato singolare; il prevalere di una versione aggressiva del sentimento nazionale, soprattutto dopo il disastro della dittatura e della guerra perduta, ha avuto come risvolto negativo il fatto che la stessa parola «Italia» è scomparsa per lungo tempo dall’uso, sostituita da «Paese» o addirittura «questo Paese», come se l’Italia fosse per gli italiani una cosa di altri, un posto dove ci si trova per caso, di passaggio.

Nella più recente prospettiva dell’ultimo decennio, questo graduale attenuarsi dell’ambizione nazionale è stato accompagnato – e forse alimentato – dall’arrestarsi del motore che, nel dopoguerra, aveva sospinto una straordinaria crescita economica: questo motore è l’ansia di rincorsa, il desiderio di uscire dalla povertà, divenuto poi timore di esclusione dall’Europa e dal gruppo di paesi che per primi hanno adottato l’euro.
Alla forza propulsiva alimentata dal timore deve ora subentrare una nuova energia: non la rincorsa, non la sanzione che viene dall’esterno, non il riscatto da una sconfitta subita, non una bombastica e improbabile affermazione di grandezza, ma una operosa e tenace ambizione di eccellenza, un impulso che viene dall’interno, dalla fiducia e dal senso di responsabilità. “Dipende da chi governa e dalla classe dirigente animare e valorizzare questi impulsi, offrire un sostituito all’incentivo esterno (le regole di Bruxelles, la paura di essere esclusi dall’euro, e via dicendo); per far questo, chi governa deve oggi essere guidato da una ambizione sul futuro del Paese anche superiore a quella dei cittadini, e allungare sempre lo sguardo oltre l’orizzonte del quotidiano”.

(corsivo tratto da Lettera al direttore, Corriere della Sera, 7 gennaio 2007)