Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 26 settembre 2003

Molti europeisti e pochi europei? Così l’Unione ha cambiato l’Italia

La partecipazione attiva al processo di unificazione fu anche il fruttuoso incontro tra una nazione povera di statualità e uno Stato in fieri privo di identità.
Il mercato comune stimolò il sorgere di una nuova classe imprenditoriale proprio quando la meccanizzazione dell’agricoltura provocava l’abbandono delle campagne.

«L’ Europa ci giudica molto europeisti e poco europei. Ma se l’ essere europei si misura nella disponibilità ad accettare l’ Europa come fattore di cambiamento allora si può forse dire che l’ Italia è stata non solo europeista ma anche europea»…

Se l’ apporto dell’ Italia al farsi dell’ Europa è poco riconosciuto, forse ancor meno lo è il beneficio che essa ne ha tratto. L’ Europa, come uno specchio, ci ha posti di fronte ai nostri difetti ed è a quelli che guarda chi, dentro e fuori dell’ Italia, ci giudica «molto europeisti e poco europei». Ma proprio l’ Europa ha contribuito a farci prendere coscienza di certi difetti e ci ha spinti a correggerli. Gli italiani hanno capito questa funzione dell’ Europa e il loro europeismo ha anche questo significato; e l’ ha capito anche la classe politica italiana che, per molti anni, ebbe l’ astuzia e il coraggio di usare quello specchio per modernizzare il Paese e perfino se stessa.

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Spesso, dentro e fuori le nostre frontiere, l’ Italia è dipinta come tanto entusiasta dell’ Europa da sacrificarle il proprio interesse; idealisti di coccio tra realisti di ferro, politici e diplomatici svenderebbero l’ interesse nazionale per fregiarsi di qualche medaglia al valore europeo.

Spesso, anche, si critica la nostra inadempienza a quegli stessi impegni europei che siamo così pronti ad assumere: infrazioni sanzionate dalla Corte di giustizia, mancato rispetto dei parametri fissati a Bruxelles.

Infine, oltre che inadempienti ai nostri doveri, saremmo incapaci di far valere i nostri diritti con un uso accorto delle procedure, o di usare i pochi vantaggi che qualche volta siamo riusciti a negoziare.

Per ognuno di questi aspetti l’ aneddotica è ampia. Non mancano gravi leggerezze e incapacità di far valere l’ interesse del Paese. Si pensi allo storico errore per cui l’ Italia, all’ inizio degli anni Sessanta, non volle includere i prodotti mediterranei nei generosi meccanismi di sovvenzione della nascente politica agricola comune; o al prolungato e cronico sottoutilizzo dei fondi comunitari; o ancora al costo dei ritardi con cui tante direttive comunitarie sono state recepite nel nostro ordinamento; o al tempo che ci è voluto per adempiere agli impegni di Schengen.

Le cause delle trascuratezze sono molte: disattenzione dei governi o delle amministrazioni, assenza alle riunioni decisive o loro insufficiente preparazione, mancanza di funzionari italiani ai posti-chiave di Bruxelles, insufficienti contatti con quelli che – spesso senza aiuto da Roma – i posti chiave li hanno raggiunti con pieno merito, ignoranza delle lingue (i colloqui decisivi si fanno nei corridoi, dove non ci sono interpreti). Si aggiungano la cortissima vita media dei governi e una sistematica priorità data per anni alle questioni italiane, rispetto a quelle europee, sia dai politici sia dai funzionari. Il ministero degli Esteri si è trovato spesso solo e senza né le direttive né le conoscenze tecniche specifiche necessarie per tutelare gli interessi del Paese. L’ Europa è un grande cantiere dell’ ideale, ma è anche un mercato levantino dove tutto si negozia, poco avviene alla luce del sole, e lo scippo è pratica corrente.

Negli anni Novanta il quadro è migliorato. Molti ritardi sono stati colmati, alcune amministrazioni (si pensi al Tesoro) hanno raggiunto ottimi standard europei, abbiamo attuato finalmente Schengen e siamo entrati puntualmente nell’ euro.

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Ogni Paese assomiglia a se stesso, a casa come a Bruxelles, anche se qualità e difetti divengono talora più evidenti – e magari cambiano di segno – proprio quando, passando la frontiera, sono confrontati con quelli di altri Paesi. Carenze dell’ amministrazione pubblica, del sistema politico e del rapporto tra il cittadino e lo Stato connotano l’ Italia fin da tempi lontani. La nostra partecipazione all’ Europa ha contribuito a rivelarle e dato impulso alle forze interne che si sforzavano di correggerle. Solo chi le considerasse congenite e senza rimedio, o chi, beneficiandone, le volesse perpetuare, avrebbe motivo di considerarle una ragione per tenere l’ Italia fuori dell’ Europa.

Dobbiamo allora guardare a come l’ Italia è cambiata nel mezzo secolo della partecipazione europea e chiederci quale influenza essa abbia avuto sul cambiamento. Solo così possiamo farci un’ idea dei benefici tratti da quella partecipazione. Mi pare che essi possano essere individuati in quattro campi.

Ricostruzione dello Stato. Quando l’ Italia emerse dalla guerra materialmente e moralmente distrutta era necessario ricostruirne la dignità e il rispetto di sé. L’ impresa era ardua anche perché il sistema politico era dominato da due forze – democristiani e comunisti – accomunate dall’ avere i propri punti di riferimento fuori dall’ Italia, da radicamento in tradizioni ideali e filosofiche estranee al filone risorgimentale e alla costruzione di uno Stato unitario, prive di adesione profonda ai principi del liberalismo politico e del mercato, più attratte da ideali internazionalistici e universalistici che da ideali nazionali. La partecipazione attiva all’ unificazione europea fu anche il fruttuoso incontro tra una nazione povera di statualità e uno Stato in fieri privo di identità nazionale. L’ europeismo italiano, come quello della Germania, significava non la soppressione dello Stato bensì la sua ricostruzione.

Crescita e stabilità economica. La Comunità europea iniziò con un’ Italia lontanissima, per benessere e ricchezza, dagli altri cinque fondatori. Non erano ancora comparsi automobili e frigoriferi; ma soprattutto mancavano beni primari come la casa, le cure mediche, il saper leggere e scrivere. Una giornata di lavoro rendeva un chilo di pane. Si emigrava verso la Francia, il Belgio, la Germania. Mancava ancora gran parte della legislazione sociale attuata da altri Paesi nella prima metà del secolo.

Mentre molti temevano che avrebbe stroncato la gracile e arretrata economia italiana, il mercato comune stimolò e premiò il sorgere di una nuova classe imprenditoriale proprio quando la meccanizzazione dell’ agricoltura spingeva milioni di famiglie ad abbandonare le campagne. Tra il 1950 e il 1990 il reddito italiano pro capite aumentò di cinque volte. Nello stesso periodo, la Banca Europea degli Investimenti e il Fondo Regionale europeo sono stati la principale fonte di finanziamenti al Mezzogiorno. Negli anni Ottanta e Novanta, l’ Europa è stata determinante per ripristinare la stabilità dei prezzi e l’ equilibrio del bilancio pubblico.

Cambiamenti istituzionali. La costituzione del 1948 aveva consapevolmente lasciata aperta la scelta tra un’ economia di tipo sovietico e un’ economia di mercato; la legislazione economica italiana era vecchia, incompleta, incoerente con quella stessa costituzione. Sono stati il Trattato di Roma e l’ ampia produzione di leggi europee che ne è scaturita a risolvere l’ ambiguità della Costituzione repubblicana e a spingere l’ Italia verso il completamento e la modernizzazione della sua legislazione economica. La nuova legge bancaria, la liberalizzazione dei cambi e della finanza, la Consob, l’ Antitrust, l’ indipendenza della Banca d’ Italia, le privatizzazioni, la concorrenza nei servizi pubblici, sono solo alcuni tra i molti frutti della partecipazione all’ Europa. E, andando oltre il campo meramente economico, nascono dal rapporto con l’ Europa trasformazioni istituzionali come la riforma delle procedure di bilancio o quella dell’ ordinamento regionale in senso federalista.

Consolidamento della democrazia. L’ Italia rimase una democrazia incompiuta fino all’ inizio degli anni Novanta. Come Messico, India, Giappone, Francia pre-Mitterrand, Germania pre-Brandt, l’ Italia non aveva mai sperimentato quel momento essenziale della democrazia che è la perdita del potere, per effetto di un voto, da parte di chi governa. Vi erano fondate ragioni per ritenere che società e sistema politico non potessero permettersi quella prova giacché i partiti di opposizione, a destra e a sinistra, erano entrambi antidemocratici. L’ incompiutezza della democrazia favorì l’ instabilità endemica dei governi e il decadimento dell’ etica nella vita pubblica. Fu il sistema europeo a esercitare una spinta al consolidamento del processo politico e all’ allargamento dell’ area democratica. Fu nel contatto con le forze politiche delle altre democrazie europee che i due partiti di opposizione cercarono e condussero la propria trasformazione in forze fedeli alla democrazia e pronte a governare.

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Allora: molto europeisti e poco europei? In un certo senso sì, perché l’ Italia era tanto vicina all’ Europa nel principio ideale e culturale che la ispirava quanto ne era lontana nella sua condizione economica e istituzionale. Ma in un altro senso, che a me pare più importante e profondo, no. Se l’ essere europei si misura non solo contando le cause davanti alla Corte di giustizia e i mesi impiegati a recepire una direttiva, ma anche nella disponibilità ad accettare l’ Europa come fattore di cambiamento – dunque in termini d’ influenza e non solo di adempienza europea – allora si può forse dire che l’ Italia è stata, con continuità e coerenza, non solo europeista ma anche europea.

(3-continua. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 19 e il 21 settembre)

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Data
26 settembre 2003
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera