Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 19 giugno 2002

Undici Settembre: Il futuro oltre l’apartheid

Una politica mondiale presuppone un punto d’incontro nella sfera della cultura


È possibile un’ unione politica del mondo senza un punto d’ incontro nel campo della cultura? La risposta è: no, non è possibile.

Come un’ economia fondata sulla divisione del lavoro e sullo scambio esige, per il proprio ordinato funzionamento sul piano mondiale, regole e poteri che la governino, dunque una politica mondiale, così una politica mondiale presuppone un parziale, eppur fondamentale, punto d’ incontro nella sfera della cultura. Il contratto sociale del mondo può essere scritto in più modi; ma la sua redazione, qualunque essa sia, non potrà non discendere da valori e divieti che nascono e maturano nella sfera della cultura.

Oggi constatiamo che proprio sul principio di separazione tra cultura e politica, tra potere politico e potere religioso, la divisione è tanto drammaticamente aspra da far scorrere il sangue e minacciare la sicurezza di tutti. Nell’ Afghanistan dei talebani otto cooperatori (medici e infermieri dediti a soccorso umanitario) furono arrestati nel 2001, perché trovati con la Bibbia in arabo e con crocefissi. Il delitto era chiamato “proselitismo”. Quali sono i veri contorni di un tale delitto, per il quale il regime talebano prevedeva la pena di morte? Dove passa il confine che separa l’ esprimere le proprie convinzioni dal fare opera di convincimento, e quello tra l’ opera di convincimento e la sovversione o addirittura il sabotaggio?

Anche in Occidente vi è chi usa il termine proselitismo in senso spregiativo per qualificare come delitto la diffusione di idee, credenze e costumi che si ritengano buoni; anche nelle democrazie europee vi è chi afferma che il rispetto per le altre culture impone di astenersi dal porle mai in discussione e addirittura di accordare un privilegio alle culture minoritarie, per tenerle al riparo dal rischio di contaminazione o estinzione. Secondo questo modo di vedere, la molteplicità delle culture cessa di essere il risultato spontaneo della varietà delle esperienze umane e dei limiti a lungo esistiti nelle comunicazioni e negli scambi. La diversità non è più un fatto da rispettare; diviene un fine da perseguire e un valore in sé. Per un’ ironia della storia, il mito dell’ uguaglianza come valore assoluto, dopo aver dominato il secolo passato si è trasformato, sul finire di quello stesso secolo, in mito della diversità come fine e valore da perseguire in quanto tale.

Anche se mossi da un intento di rispetto dell’ altro e di tutela delle minoranze, questi atteggiamenti finiscono col sacrificare libertà e cultura. Come conciliare la protezione forzosa delle culture col diritto di ogni individuo a formarsi la propria cultura, a scegliere le idee politiche, il credo religioso, le regole di privato comportamento che meglio corrispondono alle convinzioni che si è formato? Soprattutto nei primi venti o trent’ anni della vita di una persona, il formarsi delle convinzioni è un faticoso cammino che si compie con se stessi attraverso incontri, esperienze, prove, dentro e fuori l’ ambiente di origine, oltre che attraverso un’ educazione scolastica che miri a formare esseri liberi e responsabili.

L’ odierna rivendicazione di statuti speciali e separati cela il pericolo di un restringimento del comune spazio di convivenza; della legittimazione, entro ciascuna comunità, di forme di oppressione, ora sottili e ora brutali; e del perpetuarsi d’ impedimenti alla libertà di uscita dei loro componenti. La libertà è, innanzi tutto, un diritto fondamentale della persona, non del gruppo; può essere accordata al gruppo, ma non a scapito della libertà del singolo.

È forse perché la concezione distorta del multiculturalismo ha fatto, è il caso di dirlo, proseliti che, almeno fino all’ 11 settembre, il mondo occidentale sembrava meno preoccupato della sorte degli otto cooperatori di quanto lo fosse stato anni prima per quella di un giovane americano condannato a due frustate per aver imbrattato i muri a Singapore; più mobilitato contro la lapidazione di un’ adultera musulmana in Nigeria che contro quella di un’ adultera cristiana in Sudan.

Punti d’ incontro ed elementi comuni non sono sinonimi di un’ unica cultura per tutti. In realtà, la nozione stessa di cultura, elaborata dal pensiero storico-filosofico negli ultimi due secoli, pur preziosa per comprendere la storia umana, sfugge a una definizione precisa e al tentativo di applicazione nella sfera politica. Codificare le culture in termini politici e istituzionali per dar loro uno statuto porta a dividere la società in vasi non comunicanti: una forma di razzismo culturale, non troppo dissimile dal razzismo del sangue. Anche se s’ intende così tutelare la libertà, l’ ordine che ne consegue è tendenzialmente illiberale.

Tra le culture, ancor più che tra i gruppi etnici, non vi sono, infatti, confini netti e soluzioni di continuità; esse vivono e mutano le une a fianco delle altre, spesso convivono in uno stesso territorio, s’ influenzano anche quando si avversano. Non sono monoliti, bensì aggregati, coacervi entro i quali solitamente fioriscono diversi atteggiamenti, manifestazioni, interpretazioni. Entro una stessa cultura, i conflitti sono spesso più aspri che tra diverse culture; è frequente che in nome di una stessa cultura alcuni esponenti neghino ad altri il titolo a considerarsene parte. E la varietà si riscontra in ognuno dei campi nei quali una cultura si esprime: dal pensiero filosofico e religioso alla scienza, dalle arti ai costumi.

Affermare che un’ unione politica del mondo richiede punti d’ incontro nella sfera della cultura non significa dunque proporre un’ impossibile cultura unica, che sarebbe davvero una prospettiva spaventosa. Significa invece riconoscere che le regole comuni, necessarie alla convivenza pacifica tra esseri umani, debbono per forza essere derivate da alcuni principi condivisi, formulabili in termini filosofici. Tali principi possono essere tratti dalle diverse culture e vanno affermati come comuni senza che ciò implichi negazione o annullamento della diversità e della specificità di ciascuna.

In punto di fatto tali elementi comuni esistono. Essi sono enunciati in modo sintetico e comprensibile a tutti proprio nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Unità politica del mondo non significa uniformità della cultura, così come uguaglianza di diritti non significa tutela della diversità in quanto tale e a ogni costo. Cultura è ricerca della verità, scambio d’ idee, dunque accettazione della reciproca influenza.

Un ordine mondiale che persegua pace, libertà, uguaglianza di diritti e pari dignità non è, non deve essere, un ordine che si proponga di bloccare l’ osmosi, gli innesti di culture, le contaminazioni che segnano il corso della storia umana e spesso ne connotano i momenti più alti. Deve impedire le conversioni forzate, non le libere conversioni; la soppressione delle lingue locali, non l’ eventuale loro lenta, graduale caduta in desuetudine.

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Data
19 giugno 2002
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera