Tipo: Interviste Fonte: La Stampa 6 aprile 2009

Tommaso Padoa-Schioppa – i mercati dalla vista corta

Ma la crisi non è solo economica. È anche politica e culturale
di Stefano Lepri

Nella crisi gli equilibri del mondo cambiano; l’arte di chi dirige deve essere di indirizzarli verso un assetto dove la forza della legge prevalga sulla legge della forza. Attingendo alla sua esperienza di banchiere centrale e di ministro, dietro le quinte dei vertici internazionali, Tommaso Padoa-Schioppa nel suo libro appena uscito La veduta corta (conversazione con Beda Romano sul grande crollo della finanza, ed. Mulino, pp. 188, e14) denuncia gli errori che ha visto commettere. Sostiene che oggi una grande occasione può essere colta dai governanti, perché la globalizzazione diventi più equa e meno fragile; vede motivo di sperare soprattutto in Obama, e paradossalmente nella Cina, paese che pur non essendo democratico «ha lo sguardo lungo della sua storia e della sua filosofia».

Nel suo libro lei dice che stiamo vivendo una crisi non soltanto economica, ma politica e culturale; che siamo guidati da classi dirigenti responsabili di gravi errori di miopia.
«Nei passati 15 anni i motori della forte crescita erano due, gli Usa e l’Asia orientale: l’uno fondato sul superfluo e sul debito, l’altro sul risparmio e sull’accumulazione. Penso che il motore americano non potrà e non dovrà più esercitare la stessa spinta. Quel motore sovralimentato ha fuso. Uscire dalla crisi non potrà significare ritornare sul sentiero che vi ci ha portato. Bisogna che questo lo capisca la società, che lo capiscano e lo spieghino soprattutto coloro che in essa hanno un ruolo di guida, come governanti, intellettuali, imprenditori, sindacalisti. Capisco che al momento tutto lo sforzo sia volto a non cadere nel baratro di una recessione pesante; ma occorre rendersi conto che nessuna politica economica potrà evitare un rallentamento, per molti anni, della crescita del paese più ricco».

Un banchiere francese che è anche uomo di cultura, Michel David-Weill, vede negli ultimi anni, come in quelli che portarono alla grande crisi degli Anni 30, un identico segno di hybris: «la parte più ricca delle nostre società ha esagerato». I dimostranti di Londra hanno creduto di vendicarsene sfasciando le vetrine delle banche. Quali sono le colpe, secondo lei?
«Negli Stati Uniti una politica volta a favorire con il credito l’acquisto della casa per tutti permetteva di affermare che si premiava anche il ceto medio-basso, proprio mentre si allargava la forbice tra i redditi, si riduceva l’imposta ai più abbienti e i dirigenti di azienda assegnavano a se stessi retribuzioni elevatissime. La parte più ricca ha speciali responsabilità, ma la hybris è più generale. Questa è la crisi di un modello di crescita senza formazione di risparmio, di consumo a credito, di accumulo di debito. Credo che le sue determinanti siano state tre: l’ideologia fondamentalista del mercato, la veduta corta (dei mercati, della politica, delle imprese, dei consumatori, delle classi dirigenti), il nazionalismo delle politiche economiche».

Lei esorta a seguire Immanuel Kant, non Thomas Hobbes, nel costruire il governo del mondo. Ovvero: in una fase che vedrà ridimensionarsi gli Stati Uniti e crescere altre potenze, un assetto alla Hobbes, fondato su aggiustamenti successivi dei rapporti di forza, ci regalerebbe anni e anni di instabilità; mentre occorre progettare un passaggio di poteri dagli Stati – dagli Usa in primo luogo, ma anche da altri – alle organizzazioni internazionali: kantianamente, la forza della legge, per una globalizzazione che sia governata. Il vertice G-20 della settimana scorsa in che direzione si è mosso?
«Il risultato di Londra andrà valutato con calma. Mi pare migliore delle polemiche che avevano preceduto il vertice. Non mi erano piaciute le esortazioni americane agli europei. Neppure ho mai condiviso la concezione, molto popolare in Germania, secondo cui per l’equilibrio internazionale basta che ognuno tenga ordine in casa propria. No, occorre assumersi responsabilità globali».

Obama ha riconosciuto, proprio a Londra, che gli Usa non potranno più svolgere il ruolo di prima. Le crisi sono il momento propizio per allungare lo sguardo. Quanto ci riescono, le classi dirigenti del mondo?
«Che alla Casa Bianca ci sia una personalità eccezionale come Barack Obama continua a dare grande speranza. Poi è una novità importantissima la proposta della Cina sul nuovo assetto monetario internazionale. Non va assolutamente lasciata cadere».

Molti governanti dell’Occidente si sono riempiti la bocca dell’auspicio di «una nuova Bretton Woods». Poi l’unica proposta è venuta dal governatore della Banca di Cina, Zhou Xiaochuan, per una moneta collettiva, diversa dal dollaro, gestita dal Fmi. Pare simile alle idee del suo libro.
«Conosco da anni il governatore Zhou e sono certo che il passo di estrema importanza da lui compiuto abbia il consenso del governo del suo paese. Le idee di Zhou sono forse poco popolari tra i banchieri centrali e gli economisti dell’ultima generazione, ma partono dall’esigenza profonda e reale di dare all’economia globale un suo standard monetario diverso da una moneta nazionale governata per fini nazionali. A mio giudizio sarebbe un delitto se la proposta fosse lasciata cadere e faccio quanto posso perché ciò non avvenga. Abbiamo un’opportunità da cogliere al volo, in questa fase in cui la Cina emerge come grande soggetto politico mondiale, ma ha ancora bisogno del riconoscimento delle altre potenze. Se il tema posto dai cinesi non sarà affrontato con un atteggiamento aperto, il rischio è che l’effetto combinato di mercati nervosi e miopi, e di politiche monetarie nazionalistiche, aggravi la crisi. Non si può pensare che il sommarsi del crollo della finanza americana, di una crescita mondiale più lenta e della decelerazione del commercio lascino inalterato il ruolo del dollaro».

Strano che un paese autoritario come la Cina scelga una via, come lei dice, kantiana.
«Kant pensava che la pace nel mondo dovesse presupporre l’affermarsi, ovunque, di regimi repubblicani, non di autocrazie. Mi pare che la Cina di oggi sia governata da una oligarchia; un’oligarchia illuminata per gli aspetti attinenti all’economia, fondata sulla cooptazione dentro un partito comunista che ha 60 milioni di iscritti e recluta i talenti migliori. Nella fase attuale, poi, la Cina ha bisogno di essere ammessa ai club internazionali, e forse per questo si dimostra pronta ad accettarne le regole, o a stabilirne insieme di nuove».

Stampa Stampa
Data
6 aprile 2009
Tipo
Interviste
Fonte
La Stampa