Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 27 aprile 2003

Il senno del prima e quello del dopo

Torti e ragioni al termine del conflitto


Nonostante i fatti di ieri, la guerra irachena sembra finita. Ma la disputa che l’ ha preceduta continua, traendo nuovi argomenti dai fatti accaduti. È ancora utile quella disputa? E quali devono esserne le categorie? Essa è utile, ma le categorie vanno definite con cura.

Se l’ Iraq nasconda armi di distruzione di massa, se sia ammissibile una guerra preventiva, se solo col consenso dell’ Onu sia lecito intervenire contro uno Stato sovrano in assenza di una strage in corso, se gli iracheni si sarebbero sollevati in massa contro il dittatore che li opprimeva da anni, se la guerra sarebbe stata breve o lunga, se sia possibile esportare la democrazia, se l’ intervento militare incoraggerà o scoraggerà il terrorismo internazionale, se sia in atto uno scontro di civiltà e di religioni, quali gli effetti sul conflitto israelo-palestinese, se l’ Onu uscirà distrutta da una guerra unilaterale: ecco le domande che dividevano ogni Paese, l’ Europa, i partiti, soprattutto la coscienza di ognuno.

Un proverbio – «del senno di poi sono piene le fosse» – suggerisce che la saggezza acquisibile dopo i fatti sia cosa vile, sovrabbondante, un morto da sotterrare; difficile essere assennati prima, facile dopo. Ma un altro – «il tempo è galantuomo» – suggerisce di aspettare, perché il dopo non è ancora venuto; né sappiamo quando verrà.

Sappiamo ormai che aveva ragione chi prevedeva una guerra breve e con poche vittime, chi dubitava che gl’ iracheni si sarebbero sollevati, e forse anche chi non credeva alla cospicua presenza in Iraq di armi di distruzione di massa. Il popolo iracheno deve alla determinazione americana la libertà ritrovata.

I fatti avvenuti, invece, non bastano a stabilire se l’ impianto della democrazia in Iraq alla fine riuscirà, se la pace tra Israele e palestinesi sarà facilitata, se la sicurezza internazionale aumenterà, se l’ Onu sia rafforzata o indebolita. È troppo presto per dirlo, ci vogliono altri fatti. Ma, a misura che altri fatti si aggiungono, si allenta la concatenazione tra cause ed effetti, sicché diviene vieppiù difficile, e infine impossibile, ricavare il senno di poi. La storia non è un laboratorio dove si possa isolare il rapporto causa-effetto. La disputa passerà così dai contemporanei agli storici, che forse la terranno aperta indefinitamente.

Tantomeno, i fatti avvenuti bastano a dirci che vada gettato nel cestino l’ ideale di un ordine mondiale fondato sul diritto, l’ unico che la storia abbia dimostrato (sì, dimostrato) efficace per comunità umane via via più numerose.

Infine, non sono i fatti, ma l’ adesione a un principio costituzionale ed etico, a stabilire se e in quali circostanze sia ammissibile la guerra preventiva.

Dunque: per alcune domande, l’ accaduto basta ad attribuire torto e ragione; per altre, i fatti già avvenuti non sono sufficienti; per altre ancora, i fatti non basteranno mai e bisogna proprio aspettare il giorno del giudizio. Poiché quaggiù l’ errore giudiziario è sempre possibile, non possiamo accettare che un delitto divenga azione lecita se un tribunale assolve, né che un innocente divenga colpevole se condannato.

Nulla è più pericoloso, e talvolta anche moralmente riprovevole, che trarre, dai fatti, lezioni sbagliate. Bisogna guardarsi da due facili scappatoie: la prima, credere che la ragione sia comunque di chi ha la forza; la seconda, illudersi che la lezione dei fatti possa essere ignorata.

Il faticoso distinguere tra le categorie è sommamente importante. La fiducia nel progresso è fiducia nella capacità dell’ uomo di apprendere dai propri errori e di correggersi; ma questa capacità – essa stessa fragile e fallibile – consiste, appunto, nel saper forgiare quel bene raro che è il senno di poi.

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Data
27 aprile 2003
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera