Democrazie da ricostruire
Istituzioni internazionali, l’annus horribilis
L’ anno che inizia sarà fruttuoso solo se avremo guardato il vecchio con la lucidità necessaria a correggerne le devianze.
Tempo fa, la regina d’ Inghilterra inventò il termine annus horribilis per deplorare i comportamenti poco regali delle proprie nuore. Il 2003 è stato orribile non perché le nuore di Elisabetta abbiano scosso la corona britannica, ma perché i Paesi più prosperi e potenti si sono applicati a scassare gl’ istituti su cui si era tentato di edificare la pace e la cooperazione internazionale dopo due guerre terribili. Non era mai accaduto che ciò avvenisse a opera di governi democraticamente eletti.
Fatti del 2003: rottura dell’ Onu, a New York, sulla questione irachena; rottura, a Cancun, dei negoziati sulla riforma del commercio internazionale; rottura, a Bruxelles, della conferenza sulla Costituzione europea; lacerazione del piano di pace in Medio Oriente; violazioni continue (in Afghanistan, Guantánamo, Cecenia, Iraq) della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra. E, poco prima: abbandono del trattato di non proliferazione nucleare; revoca della firma posta al protocollo di Kyoto sull’ effetto serra.
La sopravvivenza della vita sul pianeta, il controllo di armi capaci di distruggere il mondo, la convivenza e l’ incontro tra religioni e culture, l’ esportazione di prodotti della terra e del lavoro umano per lenire la povertà estrema, il rispetto della dignità del nemico in guerra, la ricerca di una forma politica per l’ Europa non sono lussi riservati a chi abbia soddisfatto i bisogni domestici. Sono, per quasi ogni uomo sulla Terra, condizione vitale di sicurezza e giustizia, nonché fonte prima della speranza o dell’ angoscia.
Nel 1914 bastò una settimana – dal 28 luglio al 4 agosto – perché all’ attentato di un terrorista seguisse una guerra che durò cinque anni, uccise 8 milioni di soldati e produsse poi dittature, stermini e nuove guerre.
Il 2003 non ha colto di sorpresa chi sapeva da tempo quanto fosse esile l’ edificio eretto dopo il 1945; è solo accaduto ciò che da anni si temeva e si ammoniva a evitare.
Ma ciò che maggiormente inquieta, e sembra preludere a rovesci maggiori, è l’ ottusa soddisfazione con cui i fatti avvenuti sono stati salutati da alcuni dei potenti che li hanno causati; inquieta l’ elogio di intellettuali e osservatori che, in nome del realismo, vi hanno visto la meritata sconfitta di chi crede possibile un mondo di pace.
Preoccupa, soprattutto, il rapporto tra quanto sta accadendo e l’ istituto della democrazia. Come, un tempo, la vera religione o la superiore civiltà, così la democrazia sembra oggi diventare un prodotto per la cui esportazione si può invadere un Paese. Sembra autorizzare chi la pratica ad annettere territori conquistati in una guerra difensiva. Non solo fatica a impedire questi sviluppi, ma è addirittura invocata per legittimarli e per negarne la nefandezza.
Chiusa nel recinto troppo angusto degli Stati, la democrazia sembra ergersi a ragione per rifiutare la cooperazione e le istituzioni internazionali. Nata come antidoto all’ utopia di un governo fattore del bene supremo, e perciò assolutista ed oppressore, rischia oggi di divenire essa stessa utopia, assolutismo, oppressione.
Cittadini di Paesi democratici – europei, americani, mediorientali, asiatici – si chiedono con profonda preoccupazione dove condurrà la deriva in corso. Essi devono sapere che la speranza in un futuro migliore è affidata sì a chi li governa, ma anche alla loro capacità di tradurre in azione politica la loro coscienza di essere cittadini del mondo. A loro è affidato, in ultima istanza, il compito di far cessare la demolizione, riprendere la costruzione, consolidare la democrazia.