Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 25 marzo 2002

Un delitto e il lavoro

Questione incompresa, tanti sconfitti


Quando il lavoro umano era davvero sfruttamento, sofferenza, umiliazione fisica e morale, chi diceva di difenderlo non compiva delitti in suo nome. Là dove, nel mondo, il lavoro è ancor oggi schiavitù e rischio di vita, per esso non si commettono atti terroristici. Per amore del lavoro non si uccide.

Del delitto conosciamo l’ autore, la vittima, lo sconfitto. Autore è chi disperatamente cerca di perpetuare una condizione del lavoro e una lotta di classe che oggi sono venute meno. Vittima è ancora una volta chi cercava ad ogni costo, con tenacia e coerenza, di aprire gli occhi ai ciechi e di avventurarsi solitario nel campo del nuovo lavoro, della nuova maniera di tutelarlo, rimanendo fedele alla sua missione fino al punto di essere chiamato traditore: Biagi, come Tarantelli e D’ Antona. Sconfitto, cupamente sconfitto, è chiunque (sindacalista, intellettuale, magistrato, cronista) abbia contribuito a confondere le idee con i discorsi, gli articoli, le sentenze, gli scioperi politici; chiamando sfruttamento la necessità, permanente conquista di civiltà la pragmatica clausola di procedura, diritto l’ abuso, arbitrio la giustizia.

Per circa duecento anni la questione del lavoro ha occupato gran parte della vita politica, quasi si è identificata con essa. Iniziò con la prima rivoluzione industriale. Il lavoro di massa, ripetitivo, concentrato nella fabbrica, trasformò non solo l’ economia, ma anche la vita individuale e familiare, l’ animo e la società. Trasformò la bottega in fabbrica; l’ artigiano-maestro, circondato da pochi lavoranti che erano anche allievi e famigli, in industriale-padrone, lontano dall’ operaio e spesso spietato; ingrandì a dismisura gli agglomerati umani, la fabbrica era un campo forzato e la città un dormitorio. Il lavoratore dipendente dell’ industria era un moderno schiavo.

Per risolvere le questioni poste da quel lavoro, i lavoratori si unirono. Attraverso la lotta sindacale, prima che in quella propriamente politica (il suffragio universale ancora non c’ era), essi ottennero progressivi miglioramenti della condizione operaia: non solo salari più alti, ma garanzia del posto, ferie pagate e riduzione degli orari e dei ritmi, tutela della salute, pensione per la vecchiaia. Per vincere le proprie battaglie i lavoratori fecero forte il sindacato e, attraverso molte vittorie, il sindacato divenne sempre più forte. Il sindacato assurse a forza egemone e la questione del lavoro fu matrice di partiti politici; di derivazione sindacale divennero il pensiero degli intellettuali, il programma dei governanti, le sentenze dei magistrati, il linguaggio dei cronisti.

Il ciclo storico di quella questione sociale, di quel lavoro, si è chiuso. Due eventi l’ hanno chiuso: le conquiste sindacali ottenute nelle lotte del lavoro, per cui l’ operaio ha cessato di essere il moderno schiavo; l’ innovazione tecnica che ha trasformato il modo di lavorare e i prodotti stessi del lavoro. Si è chiusa «quella», non la questione sociale: il lavoro umano era cominciato con la cacciata dal Paradiso terrestre, ben prima dell’ infernale fabbrica ottocentesca, e continua anche dopo il tramonto del lavoro in serie.

Chiuso il ciclo, le forze organizzatesi per quella lunga battaglia si sono sbandate e disperse, come esercito dopo la vittoria. Una parte ha creduto che la guerra non fosse finita e ha continuato a combattere, ottenendo conquiste che hanno sfibrato non solo il padrone ma anche l’ impresa. Una parte, appagata dalle proprie conquiste, ha amministrato la rendita, divenendo una forza di conservazione volta a impedire in tutti i modi che il mondo continuasse a cambiare; una parte, infine, ha capito i tempi nuovi e ha elaborato strategie per farvi fronte.

Come accade, il conflitto è continuato tra i diversi tronconi dell’ antica armata vincitrice. Le frange estreme che uccidono in nome del lavoro vedono questo processo con la lucida illusione del folle. Sono lucide, perché sanno che la guerra è finita; folli, perché considerano la vittoria alla stregua di una sconfitta, di una mortale minaccia; illuse, perché sperano che la stagione del leninismo e della rivoluzione possa riaprirsi. Loro scopo sono la lotta e lo scontro, non la giustizia e la pace. Non perdonano i pazienti artefici di nuove forme di difesa del lavoro, perché proprio quelle nuove forme smentiscono la loro illusione. Cercano le proprie vittime tra questi artefici, perché essi sono l’ avversario più pericoloso, quello che, invece di sognare il passato o un avvenire impossibile, cerca con coraggio e amore di elevare, nelle condizioni di oggi, la dignità del lavoro e la fiducia dei giovani.

Infine, non vittima, ma vero sconfitto, è quel troncone della vecchia armata vincitrice che (anche mobilitando la gente in piazza su ambigue parole d’ ordine) amministra la rendita senza metterla a frutto, che difende il passato con i toni duri di chi difende il progresso, spettatore passivo di un cambiamento che non riesce né a impedire né a guidare.

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Data
25 marzo 2002
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera