Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 21 gennaio 2001

Tra libertà e necessità

Lavoro al Nord, lavoratori al Sud


Nei recenti casi delle imprese lombarde o emiliane che cercano al Sud manodopera irreperibile al Nord, si trova un tale concentrato di questioni – economiche e sociali, moderne e antiche, individuali e collettive – che non può stupire il tanto discutere che se ne fa. Dietro a quelle questioni vi sono decenni di lotte, speranze, conquiste, errori, sofferenze. Sono questioni che riguardano la fatica dei turni di notte e la paga del lavoratore, il bisogno di una casa e l’ apprendimento di un mestiere, l’ immigrazione dall’ Est europeo e l’ emigrazione dal Sud italiano, i compiti delle imprese e quelli del governo, il sindacato di oggi e quello di ieri.

Come orientarsi e capire se l’ impiego di giovani meridionali a Parma o a Legnano va favorito o contrastato, se è segno di salute o di malattia? Abbiamo letto il parere di sindacalisti, industriali, studiosi, politici, trovandovi per lo più una parte di vero, anche se spesso soltanto quella, di volta in volta, meno scomoda. Eppure solo riconoscendo le verità scomode i problemi trovano soluzione.

Che la disoccupazione sia tre o quattro volte più alta al Sud che al Nord dipende da errori compiuti ieri, quando i giovani disoccupati di oggi non erano nati. Il più grave fu l’ imposizione (presentata come conquista e regalo) della parità salariale a un Mezzogiorno che in condizione di «parità» non era per niente: diversi i costi, le infrastrutture, il livello d’ istruzione, i servizi pubblici, i beni elementari come la sicurezza e la giustizia. Fu un errore del sindacato di allora non proporre un sistema retributivo articolato; compiuto con la migliore intenzione, ma pur sempre errore. Furono gravi anche gli errori dei governi, che nel campo proprio (giustizia, sicurezza, strade, scuole) non fecero abbastanza e troppo fecero in campi altrui (investimenti industriali, sussidi a imprese inefficienti), mentre in entrambi tollerarono clientelismo, corruzione, spreco. Infine, quegli errori avrebbe forse potuto impedirli una classe dirigente meridionale che li contrastasse risolutamente, ma essa mancò. L’ articolazione territoriale del salario finalmente venne, ma troppo limitata e tardiva per risparmiare al Sud, ancor oggi, emigrazione e maggior disoccupazione.

La necessità di lavorare è connaturata alla condizione dell’ uomo: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai nella terra». Ma nel corso del secolo appena finito il lavoro è anche divenuto, per sempre più popoli e regioni, un atto di libertà. Finita la schiavitù, è quasi scomparso il lavoro coatto. E’ diminuito l’ arbitrio del padrone sul lavoratore e, secondo le parole di Giuliano Amato, cresce il numero delle persone in grado di «licenziare il proprio datore di lavoro». Il tempo dedicato al lavoro nella giornata, come nell’ arco di una vita, si è immensamente accorciato. In interi continenti, tra cui l’ europeo, dove cent’ anni fa il morso della fame tormentava l’ esistenza dei più, non è più vero che «chi non lavora, non mangia». Lavorare rimane una necessità materiale, ma più per vivere bene che per sopravvivere; e «vivere bene» significa anche svolgere un lavoro gradito e dignitoso, scelto in libertà.

Tra gli enunciati della scienza economica, forse nessuno è profondo e originale quanto la spiegazione di come nel libero scambio non vi sia uno che guadagna e uno che perde. Se lo scambio è libero entrambe le parti guadagnano e a loro spetta il giudizio ultimo sulle condizioni. Nel nostro caso: il luogo e il tempo del lavoro, le mansioni, la paga. Lavorare rimane una necessità, ma diviene sempre di più una necessità cui si può e si deve assolvere in condizioni di libertà. Cercare di impedire questo mutamento significa perpetuare la schiavitù del lavoro, non elevarne la dignità.

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Data
21 gennaio 2001
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera