Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 17 gennaio 2005

Proselitismo, la libertà di persuadere

Il dibattito su Pio XII


1. Sono molte e importanti le questioni d’ ordine generale toccate nel dibattito innescato dalla pubblicazione dei diari del nunzio Roncalli a Parigi: relazione tra giudizio storico e giudizio morale, autonomia della coscienza, diritti dei genitori sui figli. Ci colpisce quanto, nel volgere di pochi decenni, siano mutati non solo la sensibilità dei più ma anche gli atteggiamenti di un’ istituzione millenaria come la Chiesa. Sensibilità e atteggiamenti riguardanti cose tanto fondamentali come il diritto naturale della persona. La storia non è giustiziera, ci ricordano Galli della Loggia e altri; ma come dissentire da Claudio Magris quando aggiunge «… ma nemmeno giustificatrice» e quando osserva che «le ecatombi staliniane vanno certo collocate nel loro contesto ma non cessano per questo di essere bestiali delitti»?

È vero che «non possiamo giudicare il passato con il metro che adottiamo per il presente»; ma è vero anche, come scrisse Croce, che «ogni vera storia è storia contemporanea». Dal dibattito vorrei trarre alla luce il tema del proselitismo che, pur evocato in qualcuno degli interventi, è rimasto finora nell’ ombra. Eppure, basta aguzzare un po’ lo sguardo per domandarsi se tutta la discussione non verta proprio sul proselitismo: che cosa esso sia veramente, quando sia lecito, quando divenga violenza e perversione. Il proselitismo merita dunque, a mio giudizio, di essere portato sul proscenio: per evitare che l’ intera discussione sia fondata su un discutibile sottinteso; ma ancor più per non dare come chiuse, e chiuse male, questioni che – soprattutto in tempi di immigrazione e in clima di multiculturalismo – sono invece apertissime.

Il dibattito sulla direttiva vaticana del 1946, pubblicata dal Corriere della Sera il 28 dicembre, ha a che fare con l’ ebraismo e l’ antisemitismo per l’ origine familiare di quei bambini battezzati e perché i fatti avvenivano nel contesto della persecuzione nazista. Ma gli interrogativi che esso pone hanno un’ evidente portata universale e vanno oltre una religione o una comunità particolari.

2 Proselitismo e libertà di espressione. Il discutibile sottinteso è che il proselitismo sia in sé cosa non buona. Ebbene, non si scandalizzi il lettore: vorrei qui parlare del proselitismo per farne l’ elogio. E vorrei anzi esprimere preoccupazione per il farsi strada, nel nostro tempo e proprio nelle nostre società pluraliste, dell’ idea che «fare proseliti» violerebbe i diritti e attenterebbe alle convinzioni (supposte inalterabili) dell’ altro. Secondo un nascente luogo comune, uno spirito aperto dovrebbe astenersi dal propagandare le proprie idee e accettare quelle altrui senza porle in discussione. Il proselitismo sarebbe tipico di chi è intollerante, assolutista, poco incline al rispetto dell’ altro. E le convinzioni sarebbero nobili, eroiche, solo se conservate immutabili (sennò diventano tradimento).

Invece, la riflessione dovrebbe portarci a considerare questo modo di pensare come gravemente errato; un errore che sarebbe pericoloso lasciare impiantare nel nostro pensiero e nel nostro costume.

È definita proselitismo la «tendenza a fare nuovi seguaci di una religione, una dottrina, un partito, un’ idea, un progetto». Non solo l’ espressione di una convinzione, ma lo sforzo di trasmetterla, di persuadere altri della sua qualità, di fare adepti ed eventualmente militanti.

Ovviamente, questo sforzo può esplicarsi nei più diversi campi: in quello religioso, ma anche in campo scientifico, filosofico, politico. Il maestro, se è davvero tale, trasmette agli allievi un sapere o un progetto che non sono mai disgiunti da convinzione e impegno. E che altro è, se non proselitismo, la predicazione dei fondatori di religioni e dei profeti? Separare libertà di espressione da proselitismo è quanto mai arduo, forse impossibile; perciò è illusorio pensare di reprimere questo senza vulnerare quella. È difficile immaginare che l’ espressione del pensiero sia avulsa dal desiderio di convincere il destinatario.

Rudi Dornbusch, un grande economista recentemente scomparso, mi raccontava anni fa di come, giovane professore, giunto al Massachusetts Institute of Technology imbevuto di certe idee economiche, fosse stato invitato per mesi a colazione da Franco Modigliani quasi ogni giorno per serrate discussioni volte a convincerlo dell’ erroneità di quelle idee e della superiorità di altre. Non lavaggio del cervello, ma serrata interlocuzione con lo scopo preciso di persuadere.

3 Nella sfera individuale. Osserviamo il proselitismo come atteggiamento individuale e come parte dell’ ordine sociale. Che cosa si può immaginare di più naturale e più civile in un uomo che lo sforzo di convincere il prossimo di ciò in cui crede e di cui è persuaso? E per converso, dal punto di vista di questo «prossimo», che cosa si può immaginare di più incoerente con un atteggiamento davvero teso alla ricerca della verità che l’ esclusione a priori del tentativo – considerato invece addirittura offensivo – che un altro potrebbe fare di persuadere della bontà del suo pensiero e delle sue posizioni?

Ogni dialogo con l’ altro deve, per essere davvero tale, divenire anche un dialogo con se stessi. Deve ammettere il dubbio, accettare l’ ipotesi che la nostra posizione sia rivedibile, che possa almeno contenere una parte di errore. Così l’ interlocutore del dialogo da avversario diviene nostro alleato, proprio in quanto contribuisce a perfezionare la nostra verità. Da una conversazione che ha cambiato le nostre idee usciamo con un sentimento di pienezza, ancora più grande che se fossimo stati noi a convincere l’ altro.

4 Nella sfera sociale. Una società nella quale la propaganda per le proprie idee fosse considerata un attentato alle persone sarebbe l’ esatto opposto di quella che filosofi, militanti politici, semplici cittadini hanno inteso realizzare in nome della libertà.

Proselitismo non significa – si guardi il dizionario – cercare di fare seguaci con la violenza, di arruolare adepti contro la loro volontà. Significa diritto di espressione e di associazione. Inizia proprio con il riconoscimento dell’ altro. San Francesco predicava agli uccelli; ma molti considerano indegni interlocutori altri esseri umani in carne e ossa. In colui che lo pratica, il proselitismo presuppone convinzione nel valore delle proprie idee e disponibilità a renderne altri partecipi; in colui che ascolta, presuppone libertà.

Nella vita sociale, il proselitismo alligna in culture e gruppi umani aperti ad accogliere i nuovi e i diversi, senza distinzione di sangue o di ceto, in un regime politico e in un costume in cui gli individui possano cambiare idea, religione, parte politica. Non è senza significato che la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dalle Nazioni Unite nel 1948 sancisca, all’ articolo 18, «la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo».

Il proselitismo non è praticabile quando la società sia divisa in caste come nell’ India tradizionale; o quando il gruppo sia chiuso, come nell’ antica oligarchia delle famiglie patrizie che governò Venezia per secoli; o quando il gruppo si formi per cooptazione, come nei Paesi in cui governa un partito; o ancora quando l’ uscita dal gruppo sia impedita o resa difficilissima da sanzioni morali, come la messa al bando, o addirittura da pene materiali, come la condanna a morte per apostasia; o infine dove il territorio, non una scelta di coscienza, determini la fede cui si è votati (cuius regio, eius religio).

Basta l’ elenco di questi casi negativi a illustrare come, in positivo, il proselitismo sia espressione di indipendenza individuale, di spirito critico. Non troviamo proselitismo dove allignano repressione politica, apatia, agnostica indifferenza, conformismo di gruppo, segmentazione sociale in comunità impenetrabili definite dal sangue o dal territorio. Lo troviamo dove la società è aperta e viva, dove fioriscono passioni e credenze, dove la via della salvezza è aperta a chiunque la voglia imboccare, dove la comunità umana è percepita come una, eppure capace di dividersi e competere.

Rimasi sorpreso, anni fa, quando il vescovo cattolico di un Paese non liberale del Nord Africa mi disse: «Noi non miriamo a convertire alcuno e cerchiamo di dissuadere coloro che ci chiedono il battesimo. Le conseguenze potrebbero essere troppo dannose sia per il nostro rapporto con la società locale sia per la stessa esistenza del convertito».

5 Eccessi e perversioni. Come ogni altra espressione della libertà, anche il proselitismo ha i suoi eccessi e le sue perversioni. Consistono nel recare danno a un valore in nome di esso; nel realizzare, in nome di esso, il suo contrario.

Non conosco più forte rappresentazione di questa perversione della leggenda «Il Grande Inquisitore» raccontata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov. Così, sono perversioni le conversioni forzate nella storia del Cristianesimo, ricordate da Emma Fattorini; o quelle dell’ Islam. Queste sono perversioni che turbano particolarmente nel Cristianesimo, in quanto religione fondata sulla libertà della coscienza piuttosto che sul vincolo del sangue. Anna Foa lo ha bene spiegato nel suo articolo: «Che la somministrazione del battesimo, in quanto sacramento fondato sulla libera accettazione e sulla fede, non dovesse avvenire sotto costrizione è principio fondante della religione cristiana».

La tendenza a imporre, piuttosto che proporre, a vincere anziché a convincere è sempre presente nell’ animo umano come una tentazione. È tentazione cui possono cedere singole persone nei comportamenti privati e nei rapporti individuali, oltre che gruppi, istituzioni o governi. L’ abuso dell’ autorità, l’ inganno o la violenza psicologica costituiscono veri crimini morali, difficilissimi da documentare e da reprimere.

Gli argomenti del potere mai dovrebbero sostituirsi al potere degli argomenti. Ma si cadrebbe nello stesso errore – negare un valore in nome di esso – se si condannasse il proselitismo in quanto tale in ragione del fatto che esso può degenerare.

6 Maggioranze e minoranze. Non è vero che il proselitismo connoti le maggioranze più delle minoranze. Nelle une e nelle altre ne troviamo la pratica, il rifiuto, le degenerazioni. Un’ idea nuova si diffonde per l’ impegno attivo – spesso tanto più attivo quanto più l’ idea è rivoluzionaria – di minoranze che l’ hanno abbracciata e la giudichino degna di essere diffusa. Le maggioranze sono forse inclini all’ oppressione più che alla persuasione.

Del resto maggioranza e minoranza sono termini relativi. Ceti o gruppi che sono minoritari (si pensi al ceto intellettuale, o a piccoli partiti di tendenza radicale, o a sette e gruppi religiosi) spesso si muovono contro la corrente culturale, politica, religiosa della società in cui si trovano e soffrono di pregiudizi e discriminazioni. Ma, non meno spesso, verso l’ individuo che tende ad allontanarsene il gruppo esercita le stesse pressioni morali e le stesse discriminazioni che lamenta di ricevere dalla società circostante. L’ oppressione esiste anche dentro le minoranze. Vi sono maggioranze e minoranze anche dentro i gruppi minoritari, siano un sindacato, un gruppo religioso, un ordine professionale o altro ancora. L’ ostilità al proselitismo è dunque una malattia delle maggioranze come delle minoranze.

Il proselitismo si esercita verso l’ individuo, di cui presuppone la libertà. La sua pratica come il suo rifiuto hanno a che vedere con la singola persona e col comportamento sociale, con l’ autonomia del singolo entro ognuno dei molteplici e via via più ampi gruppi cui egli appartiene nella società. In una società libera deve esserci libertà anche all’ interno dei gruppi minoritari. La legge tutela questa libertà, ma il costume può notevolmente restringerla nei fatti.

7 Proselitismo e società multiculturale. Nel 2001 otto cooperatori – medici, infermieri – furono arrestati dai talebani perché trovati in possesso di Bibbie in arabo e di crocifissi. Erano accusati di «proselitismo», delitto per il quale il regime prevedeva la pena di morte. Commentando l’ arresto, l’ allora ministro degli Esteri afgano rispose così alla critica di violazione dei diritti umani: «Noi crediamo qui di essere al servizio dei diritti umani, ma vi è una certa differenza nella definizione di questi diritti. Noi crediamo in diritti secondo l’ Islam e se qualcuno cerca di imporci la sua definizione di diritti umani, egli commette un triste errore. Perché questo non è il mondo di una sola cultura e una sola religione».

Ma il proselitismo (proselito significa, in origine, forestiero, sopravvenuto) è oggi in pericolo anche nelle democrazie dell’ Occidente, dove gruppi di immigrati o culture minoritarie chiedono spesso uno statuto di specie protetta. E lo fanno in nome dei due elementi la cui importanza è, secondo Galli della Loggia, cresciuta «per effetto dell’ Olocausto»: «la forte valorizzazione positiva della dimensione rappresentata dall’ “identità collettiva” e la “centralità della figura della vittima in genere”».

Ebbene, credo che occorra percepire tutta la problematicità di questi due elementi e il pericolo insito in essi, sino a quello di una postuma vittoria del nazismo. La nozione stessa di identità collettiva va maneggiata con enorme cautela e consapevolezza dei rischi che nasconde.

Dal giudicare come un valore la libertà di coesistenza delle culture (cosa sacrosanta) si passa a giudicare la diversità stessa come un fine in sé (cosa errata); e da questo giudizio si passa quindi alla condanna del proselitismo. Così la libertà uccide se stessa e il multiculturalismo uccide la cultura.

Pluralismo significa che le culture hanno cittadinanza in una società di aperto confronto entro regole comuni, regole che assicurino la possibilità del confronto in forme pacifiche. Se invece i gruppi titolari di una «identità collettiva» sono ospiti in un arcipelago dove ogni cultura – ognuna col suo certificato d’ origine controllata – è difesa non nel suo diritto di fare proselitismo ma in quello di non riceverlo, ed è garantita contro ogni assalto della persuasione, ciò che risulterà sarà la fine del pluralismo in nome del multiculturalismo. Lo ha spiegato con grande efficacia Giovanni Sartori in Pluralismo, multiculturalisno e estranei (Rizzoli, 2000).

Che le culture possano evolvere, confrontarsi, competere, influenzarsi a vicenda, pacificamente tramontare, va accettato come parte integrante del processo storico, tanto più civile quanto più avviene in condizioni di pace. Non vi sono garanzie di immortalità, anzi il rischio di morte è prova e segno di vitalità. Lingue morte, civiltà sepolte; non per questo scompare l’ apporto che hanno dato alla storia umana.

Non va dimenticato che il privilegio della minoranza è l’ anticamera dell’ oppressione da parte della maggioranza.

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Data
17 gennaio 2005
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera