Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 22 marzo 2006

Patriottismo sì Protezionismo no

Lo spirito di comunità e la difesa dei privilegi.

«Il patriottismo economico va eliminato dagli Stati, ma ciò è possibile solo se lo si ricostituisce a livello europeo». Me lo dice un capo d’industria parigino a commento di vicende recenti: una legge francese protegge dieci settori industriali da scalate straniere; Bnp-Paribas acquista Bnl; Électricité de France acquista Edison; Enel concupisce Suez; il suo governo fonde questa con Gaz de France. Il mio interlocutore ha forti convinzioni europee, nella linea di Jean Monnet e Jacques Delors. Condivido il suo auspicio di un patriottismo europeo, ma non lo seguo nel condannare quello nazionale. Su questo tema proprio il Corriere aveva aperto, poco più di un anno fa, un ampio dibattito (Tremonti, Scaroni, La Malfa, Nardozzi, Ostellino, oltre a chi scrive) che, riletto oggi, appare più attuale di ieri.

In linea generale direi: patriottismo sì, protezionismo no. Spirito di corpo e ambizione collettiva non sono mali da condannare; se bene instradati, sono l’indispensabile lievito del successo, anche economico, di ogni comunità, sia essa regionale, nazionale o europea. Non basta certo il talento di un imprenditore a creare ricchezza, se tribunali, scuola e servizi pubblici non funzionano. Non basta certo la guardia di finanza a far pagare le tasse, né i netturbini a tener pulite le strade. Ma senso civico e buon governo richiedono un grado di patriottismo. Senza questo è impossibile creare le condizioni generali che ogni successo richiede, collettivo o individuale. E perché lo spirito di comunità dovrebbe esprimersi solo nel calcio? Ma quando il patriottismo ricorre al protezionismo esso sbaglia la scelta dei mezzi: invece di promuovere il benessere di tutti, crea il privilegio di alcuni. A chi giova il protezionismo? Certo non alla generalità di quelli che giungono con fatica alla fine del mese e preferirebbero, per lo stesso prezzo, acquistare beni o servizi più abbondanti e migliori. Si obietta che se quei beni sono importati, chi li produce in Italia perderà il lavoro.

È vero, il protezionismo, almeno per qualche tempo, protegge loro; ma non la comunità nazionale nel suo insieme, non il sistema economico, non la sua capacità di competere nel mondo. Moltissimi consumatori sovvenzionano pochi produttori acquistando beni e servizi più cari di quelli che potrebbero ottenere altrimenti. Dunque, contrapposizione non tra italiani e stranieri ma tra italiani e altri italiani. Spetta alla politica, applicata all’economia, dirimerla. Che lo Stato soccorra chi perde il lavoro è ormai scritto nel nostro contratto sociale, un principio che rafforza il senso di appartenenza alla società e cementa il patriottismo. L’Europa può andare fiera di avere aggiunto la solidarietà alla pace, alla libertà, alla giustizia nella lista dei valori perseguiti nel governo della collettività; indica una via agli altri Paesi del mondo. Ma il soccorso può prendere diverse forme, più o meno costose in termini di risorse, più o meno eque in termini sociali; ed è qui che le strade del patriottismo e del protezionismo si dividono. Il soccorso può tenere artificiosamente in vita imprese o settori che altrimenti chiuderebbero; oppure aiutare ad apprendere e trovare un nuovo lavoro, assicurando un sussidio nella fase di passaggio. Spreco e ingiustizia nel primo caso; vera solidarietà nel secondo. Proprio perché privo di giustificazione economica il protezionismo cerca la giustificazione patriottica. Ma usurpa l’argomento. È patriottismo soccorrere il bisognoso, non infliggere all’intera economia un costo inutile. È difficile che una cattiva economia faccia una buona politica.

Vedi l’articolo in pdf

Stampa Stampa
Data
22 marzo 2006
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera