Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 30 dicembre 2001

La rivoluzione delle abitudini

Una moneta tra storia e vita quotidiana


L’ euro entra nella vita quotidiana. Se n’ è tanto scritto e parlato in pubblico e in casa, in ufficio e sui giornali. Giornali e televisione, soprattutto nelle ultime settimane, hanno presentato ogni aspetto della nuova moneta, mostrato le banconote e i pezzi metallici, interrogato cittadini, negozianti, banchieri, economisti. Eppure, l’ euro sarà una sorpresa, anche per chi, in ragione delle circostanze personali e del lavoro scelto, per molti anni ha dedicato gran parte della sua attività a prepararne l’ avvento. Sono le nostre abitudini quotidiane, quelle delle quali siamo meno consapevoli, quelle che più sorprendono anche noi quando per un momento ce ne stacchiamo e le guardiamo da fuori: il suono del nostro nome, la strada in cui abitiamo. Abitudini che improvvisamente scompaiono e che poi ricordiamo con stupore, meravigliandoci che siano state nostre per tanto tempo.

Sono molte le abitudini legate alla moneta. Alcune muteranno in pochi giorni o poche ore, come accade ogni volta che varchiamo la frontiera; altre solo molto lentamente o forse, per alcuni, mai. La moneta è mezzo di pagamento e misura del valore. Al nuovo mezzo di pagamento ci abitueremo in fretta; alla nuova misura del valore lentamente. La funzione di mezzo di pagamento si attiva mettendo mano al borsellino; impareremo presto che il borsellino contiene euro e non lire, e che il pezzo metallico di valore massimo non vale più mille lire, ma circa quattromila (due euro). La funzione di misura del valore è quella che ci fa capire in un istante se una determinata cosa è cara o a buon mercato; è una funzione iscritta nella nostra memoria, dove si conserva l’ idea del prezzo normale di un’ ampia quantità di beni e di servizi. Un vero listino prezzi.

Il cambio di misura del valore a noi italiani ce l’ ha inflitto, per anni, l’ inflazione, obbligandoci a un cambiamento continuo di abitudini, una ginnastica ben più scomoda e subdola di quella che faremo nelle prossime settimane.

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Era scomoda, perché avveniva in modo strisciante e imprevedibile, giorno per giorno, anziché – come ora – alla luce del sole e in una volta sola; subdola, perché ammantata dell’ apparenza della continuità, ignorata dal fisco, difficile da misurare. La lira ha conservato nel tempo il nome, ma non il valore. Si pensi a quante volte una persona che oggi ha ottant’ anni ha visto variare il prezzo del giornale, del caffè, e di ogni altro bene.

I primi tempi dell’ euro saranno segnati dal cambiamento delle piccole abitudini. Cambiarle non è mai in sé comodo, neppure quando il cambiamento è nella direzione della maggior razionalità, come il sistema decimale o la segreteria telefonica.

L’ aneddotica dell’ avvio dell’ euro sarà ampia e preferirà indugiare sugli inevitabili contrattempi e sulle cose andate storte piuttosto che sui grandi cambiamenti economici e politici di cui l’ euro costituisce solo un momento. Allo stesso modo, su una carta geografica leggiamo più facilmente i nomi dei villaggi e delle città che quelli delle regioni e degli Stati che l’ attraversano tutta.

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Quali sono i grandi cambiamenti?

Chi, per mestiere, è economista o banchiere centrale pensa che il più grande cambiamento sia avvenuto tre anni fa, quando a Roma, Parigi, Amsterdam le banche centrali nazionali (istituzioni venerate, spesso plurisecolari) cessarono di governare la moneta del loro Paese, di stabilirne il valore determinandone la quantità, di poter scatenare o impedire l’ inflazione. Per la funzione più importante del banchiere centrale è da allora che le monete nazionali hanno cessato di essere realtà e sono divenute parvenza. Lire, franchi, fiorini da allora sono stati solo, come fu detto, i nomi nazionali dell’ euro, che, di fatto, già esisteva.

Pur vero, tutto ciò sembra al comune cittadino quasi irrilevante di fronte al cambiamento portato dall’ ingresso dell’ euro nelle abitudini quotidiane. Furono proprio i politici e le persone comuni quelli che colsero la realtà assai meglio dei banchieri centrali, quando quindici, vent’ anni fa riuscivano a capire che cosa veramente fosse l’ unione monetaria solo quando si spiegava loro che i biglietti e le monete in lire, marchi, pesetas sarebbero stati sostituiti da un unico nuovo biglietto o moneta, con un unico nome.

Aveva ragione Margaret Thatcher quando usò, come argomento per opporsi alla moneta unica, la volontà di mantenere il ritratto della regina d’ Inghilterra sulle banconote. La pluralità delle monete in Europa era iniziata proprio così, quando un paio di secoli dopo la deposizione dell’ ultimo imperatore romano di Occidente, i re – che noi chiamiamo barbarici – osarono togliere l’ effigie dell’ imperatore dal fronte delle monete e porvi al posto la propria. Quel gesto significava che essi non riconoscevano più alcuna autorità sopra di sé, che erano, appunto, sovrani. E «sovrano» fu il nome dato a una delle monete nel corso della storia europea, mentre altre si chiamarono luigi, reale, napoleone, carlino. Oggi, quei sovrani ritornano nei ranghi. Dà una certa emozione vedere i volti di re Alberto del Belgio, Juan Carlos di Spagna, Beatrice d’ Olanda, compostamente attestati sul retro della moneta da un euro, consapevoli di ritornare, dopo quasi quindici secoli, alla semplice condizione di reggitori di una provincia dell’ impero.

Nel frattempo quei re, quei poteri sovrani, compirono un ben lungo tragitto. Fu un cammino d’ incivilimento. I sovrani abbandonarono il paganesimo, dettero pace e sicurezza ai loro territori, unificarono la lingua, emanciparono la politica dalla religione, promossero le arti e le scienze, amministrarono la giustizia, svilupparono i commerci, andarono alla scoperta del mondo. Impararono anche a moderare il loro potere, riconoscendo dignità a parlamenti e ministri. Appresero, talora solo dopo averci rimesso la testa, che il popolo non era di sudditi ma di cittadini, che il popolo non apparteneva a loro ma essi al popolo. Addirittura, alcuni di quei poteri sovrani divennero, da regni, repubbliche, cessando di trasmettersi per via ereditaria.

Ma, oltre che d’ incivilimento, fu anche cammino di sangue e di barbarie. Pacificazione entro i confini, ma guerra, saccheggio, conquista, oppressione al di fuori di essi. Sfruttamento coloniale, conversioni forzate, tassazione iniqua, falsificazione della moneta, tortura. La progressiva moderazione del potere sovrano avveniva all’ interno del regno, non fuori di esso. L’ atto di prepotenza iniziale, col quale i sovrani avevano spodestato l’ imperatore dalla moneta, non veniva revocato. Davvero barbarici rimasero i sovrani nel non riconoscere alcun potere sopra di sé. E barbarie fu l’ ultima apoteosi della sovranità illimitata, nella quale (in due guerre mondiali) fu rinnegato tutto il faticato incivilimento e fu tentato il ritorno al paganesimo.

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Per chi oggi ha trent’ anni, questa è storia vissuta e raccontata dai nonni e dai bisnonni. Ma, mentre l’ Europa era ancora nel buio della Seconda guerra mondiale e non si sapeva come ne sarebbe uscita, alcuni di quei nonni e bisnonni, spesso in esilio, in carcere, o nella lotta clandestina, operando in Francia, Italia, Germania, Svizzera indipendentemente gli uni dagli altri, elaboravano un’ interpretazione della tragedia che si stava svolgendo, riflettevano a come si potesse impedirne il ripetersi, cercavano di preparare un avvenire diverso. Monnet, Spinelli, Maritain, von Moltke, Einaudi sono alcuni dei loro nomi. Solo ponendo fine alla pretesa di potere illimitato degli Stati, solo sottoponendo i sovrani stessi a un potere superiore che li disciplinasse in alcuni ben definiti campi della politica e dell’ economia sarebbe stato possibile porre fine all’ incessante alternarsi di guerre e di tregue precarie che aveva segnato la storia europea per oltre tre secoli, sino alla tragedia finale delle guerre mondiali.

La via tentata per edificare la pace fu quella economica. Gradualmente si creò uno spazio nel quale merci, capitali, servizi, persone potessero circolare liberamente, più liberamente ancora di come circolavano entro ciascuno Stato prima che nascesse l’ Unione Europea. Perché quelle libertà fossero garantite e disciplinate nello stesso tempo, e affinché ogni cittadino e ogni impresa di ogni Paese fossero certi di poterne godere senza rischiare che un altro Paese glielo impedisse, fu istituito un potere superiore a quello dei singoli Stati: potere di fare leggi vincolanti per tutti, di assicurarne la messa in esecuzione e di condannare chi le violava. Non si creò uno Stato europeo; ma per la vita economica si fondarono a livello europeo i poteri che sono tipici di uno Stato.

Per circa quindici anni la moneta di questo «Stato» economico europeo fu il dollaro; poi, per quasi venticinque, il marco; ora l’ euro. Il mondo esterno ha guardato con stupore questa evoluzione. Esperti e specialisti hanno discettato e dubitato. Era la prima volta che veniva meno la coincidenza tra moneta e Stato, che si progettava di dare una sola moneta e una sola banca centrale a una «entità» che non aveva un apparato statale compiuto, un proprio esercito, una propria politica estera, una propria polizia. Tanto fortemente radicata era l’ abitudine alla coincidenza tra monete e Paesi che, per il «Paese dell’ euro», fu rapidamente coniato il nome di Eurolandia.

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L’ euro è un passo di questo lungo cammino, un cambiamento di abitudini secolari, che impregnano la nostra cultura e la nostra identità assai più profondamente dei semplici atti del pagare e del far di conto. Ciò che il tecnico e lo specialista non sempre colgono, lo coglie il politico che abbia visione e coraggio. «L’ euro è una questione di pace e di guerra» disse più volte Kohl ai suoi concittadini e agli europei. «Se si fosse fatto prima, si sarebbero evitate tante guerre», mi sono sentito più di una volta dire da sconosciuti casualmente incontrati che, in diversi Paesi d’ Europa, interrogavo sul significato dell’ euro per loro.

Perché è questione di pace e di guerra? Stampare una banconota da cento euro costa poco più di dieci centesimi di euro. Perché mai quando uno sconosciuto ce la porge siamo pronti a dargli in cambio qualcosa di reale che vale non dieci centesimi di euro ma cento euro? Quello sconosciuto non lo vedremo mai più, eppure ci fidiamo di lui e del pezzo di carta che ci porge. Ci fidiamo perché la sua banconota è la nostra, il suo sovrano è il nostro, siamo parte della stessa società, obbediamo alle stesse leggi, insomma siamo concittadini. Questo volevano negare, nel dividere l’ impero, i re barbarici scacciando l’ imperatore; questo vogliono affermare, per riunificare l’ Europa, i loro discendenti di oggi accomodandosi sul retro della moneta da un euro.

Il cambiamento di abitudini che l’ euro segna e promuove riguarda il perimetro della nostra società, la percezione di chi è e chi non è nostro concittadino. Giorno per giorno muterà la definizione della società di cui ci sentiamo parte.

Qui sta il più importante cambiamento recato dall’ euro alle nostre abitudini; ma qui sta anche l’ insidia. L’ insidia è di credere che l’ euro sia l’ ultimo passo, che l’ Europa unita sia ormai cosa fatta. Chi più fortemente volle la moneta unica, la volle perché aiutasse a compiere altri passi, non perché fosse l’ ultimo. Il sovrano barbarico non rivendica più un illimitato potere, ma l’ imperatore ancora non c’ è. Non può assurgere a rango d’ imperatore la scritta «1 euro» sul fronte della moneta. Perché l’ abitudine a considerare nostro concittadino colui che usa la nostra stessa moneta non sia illusione e, alla fine, inganno, su quell’ abitudine si deve costruire ancora.

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Data
30 dicembre 2001
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera