La necessit
Quattro temi per il Paese
di Tommaso Padoa-Schioppa
Come nello scorso agosto, così oggi la politica e le istituzioni si sono date un mese di tempo per decidere del loro futuro e di quello dell’Italia. Ogni cittadino consapevole vive questo tempo con animo sospeso e medita sulle alternative. Propongo al lettore qualche riflessione di carattere esclusivamente personale. Se il governo in carica otterrà la fiducia, esso continuerà il suo lavoro. Se la perderà in una delle due Camere, la crisi si aprirà inevitabilmente e inizieranno consultazioni per accertare se un nuovo esecutivo possa nascere dal Parlamento. Secondo la Costituzione questo è sovrano lungo tutto l’arco della legislatura; il suo compito non è di essere fedele a un «mandato degli elettori» perché
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i parlamentari sono stati eletti senza vincolo di mandato (articolo 67). Esso ha ricevuto una delega, non un mandato. Esso è il popolo, e può (anzi, in quel caso, «deve») essere sciolto solo se si dimostra incapace di formare un governo sorretto dalla propria fiducia. Non c’è né legge elettorale, né cosiddetta costituzione materiale che possano modificare le regole chiarissimamente scritte nella Costituzione.
Se un gruppo di forze politiche si proporrà con un accordo di programma e un sostegno parlamentare credibili, esso riceverà dunque l’incarico di costituire un governo. Se l’accordo si conferma, il governo si forma, giura, entra in carica e va alle Camere per ottenerne la fiducia. L’esecutivo precedente cesserà di esistere da quando il nuovo avrà giurato; a nulla servirebbe che avesse ottenuto la fiducia di un ramo del Parlamento poco prima di essere
sfiduciato dall’altro. Ottenuta la fiducia, il nuovo esecutivo sarebbe legittimo a tutti gli effetti e per tutte le materie che la Costituzione assegna alla sua competenza. Eventuali accordi che limitino la durata o il programma di un governo sono, dal punto di vista costituzionale, irrilevanti; hanno la natura di pronunciamenti politici. Fino al giorno in cui venga colpito da un voto di sfiducia o dal terminare della legislatura, ogni governo è legittimo e ha pienezza di poteri.
Nel passaggio da uno ad altro governo, la funzione del capo dello Stato di tutore e garante della correttezza costituzionale è particolarmente rilevante proprio perché in quel passaggio manca un esecutivo dotato della pienezza dei poteri. Sostenere che il capo dello Stato abbia il dovere o il potere di condizionare il programma, o la durata, o la composizione, o l’omogeneità politica del nuovo governo significa sollecitarlo a distorcere il proprio ruolo e minarne l’autorevolezza istituzionale. Quegli aspetti, infatti, sono competenza del Parlamento e delle forze politiche.
Il governo, dunque, potrebbe cadere soltanto per effetto di un voto di sfiducia e il presidente del Consiglio fa bene a ricordarcelo. Ma quel voto di sfiducia, se ci fosse, avrebbe a sua volta un senso soltanto se il suo fondamento fosse chiaro: non un disaccordo su temi di ordinaria politica, ma il riconoscimento (nato, per impulso di Fini, nella stessa maggioranza) di una profonda triplice crisi della democrazia, dello Stato di diritto e dell’unità nazionale.
Il voto di sfiducia dovrebbe allora essere espressione di una unione nazionale volta a uno scopo. E l’unico scopo che si può vedere è di porre fine alla stagione politica iniziata nel 1992-94 e mai risoltasi in un duraturo rimedio ai mali della Repubblica. Sarebbe indispensabile, in altre parole, che la maggioranza sfiduciante fosse del tutto consapevole che il suo vero compito non consisteva tanto nel far cadere il governo, ma nel compiere una intensa, anche se breve, «ricostruzione della normalità istituzionale». È su questa che sarebbe giudicata dalla storia. Il nesso tra pars
destruens e pars construens è strettissimo. Lo è innanzi tutto nei tempi. Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa.
Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell’Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l’informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra.
Se le figure politiche che avessero determinato la caduta del governo mancassero della capacità e della determinazione richieste dalla pars construens, sarebbero esse, non Berlusconi, a scomparire dalla scena politica. In passato ciò è già avvenuto con le esperienze delle legislature iniziate nel 1996 e nel 2006: hanno entrambe restituito il potere a un avversario rafforzato dalla sconfitta.
Se invece l’iniziativa apparisse come il primo e credibile passo di una cura profonda, non «di parte», è assai probabile che essa verrebbe assecondata da forze assai più numerose di quelle che se ne facessero promotrici. Proprio perché si tratta di compiere una ricostruzione istituzionale, il nuovo governo potrebbe, anzi dovrebbe, essere sostenuto da un arco di forze politiche ampio, tanto da includere componenti rilevanti sia della destra sia della sinistra. Esso non sarebbe né tecnico, né a tempo, né del presidente, né di «ribaltone»; sarebbe, semmai, un governo del Parlamento. La ricostruzione dovrà infatti essere patrimonio comune della Repubblica, tanto di chi vincerà quanto di chi perderà al successivo voto.
La ricostruzione istituzionale dovrebbe essere completata in questa legislatura, prima di andare al voto. Se si votasse senza averla compiuta, essa non verrebbe intrapresa affatto, o sarebbe opera dal vincitore disconosciuta dallo sconfitto.