Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 30 dicembre 2005

La banca, il cambio e la tradizione

L’istituto è un corpo sano e le ferite curabili.

Il direttore Paolo Mieli mi chiede se voglio commentare la nomina del nuovo Governatore della Banca d’ Italia, ben consapevole che rischia di ospitare un intervento «per fatto personale». Accetto volentieri pensando ai lettori del Corriere, ai carissimi ex colleghi della Banca, alla grande riconoscenza che ho per l’ Istituto in cui ho lavorato quasi 30 anni e che forse, nel formarmi, è stato secondo solo alla mia famiglia.

Nel corso che frequentai a Roma nel 1968 con la speranza di essere poi assunto come impiegato ci veniva, tra l’ altro, insegnato questo: «Se entrerete nella Banca d’ Italia potrete accedere a tutti i gradi della carriera fino a quello di direttore generale. Governatore no; quello viene da fuori perché deve saper parlare ai politici e questo, chi sta in Banca, non deve saperlo né deve impararlo». Un precetto radicale, ma ricco di saggezza.

La distanza dalla politica, d’ altra parte, non aveva alcuno degli incivili accenti di antipolitica oggi tanto di moda tra pubblici funzionari e cittadini. Era riconoscimento di quello che giustamente si chiama il primato della politica. Ricordo bene il profondo rispetto con cui i tre Governatori sotto i quali più a lungo servii la Banca (Carli, Baffi, Ciampi) solevano rivolgersi al «loro» ministro, spesso persona assai più giovane, tecnicamente impreparata, addirittura impacciata nell’ esercizio di alcune funzioni. Usavano il «lei» e il termine «Signor ministro», non il «tu» e il nome di battesimo. Riconoscevano appieno che l’ eletto del popolo, fiduciato dal Parlamento, ha una investitura superiore a quella del pur alto funzionario. Sapevano che l’ autonomia e l’ indipendenza erano di natura tecnica, non politica: autonomia della tecnica dalla politica, non di una politica da un’ altra politica.

Da allora il mondo e l’ arte delle banche centrali sono profondamente cambiati. Le due plurisecolari ancore della moneta (l’ oro, lo Stato) sono state abbandonate. La forza dell’ istituto di emissione, una volta appesa a fili sottilissimi come il prestigio, la competenza tecnica, la capacità di persuasione, lo stile di vita, si è assisa sulle fondamenta apparentemente granitiche di statuti, leggi, garanzie di stabilità. Molte banche centrali nel mondo hanno sviluppato una concezione ipertrofica del proprio compito e del proprio potere, forse con ciò preparando la loro fine.

Si sono trasformati anche organizzazione, personale, tecnologia. Le Banche d’ Inghilterra e d’ Olanda hanno poche centinaia di dipendenti e nessuna filiale. La cittadinanza non è più un requisito per essere assunti e neppure per entrare nell’ organo collegiale che decide. Le operazioni allo sportello con il pubblico sono cessate quasi del tutto.

La Banca d’ Italia di cui – con impeccabile competenza tecnica, esperienza, integrità personale – Mario Draghi diviene Governatore è oggi ferita in ciò che aveva di più prezioso: la reputazione e il rispetto degli italiani e degli stranieri. Ma sono ferite curabili in un corpo sano. Ciò che per decenni tenne la Banca in cima alle aspirazioni di tanti giovani erano la fama di eccellenza tecnica, di selezione fondata sul solo merito, di apertura sul mondo, di dedizione disinteressata all’ interesse generale. Chi veniva assunto, attraverso concorsi rigorosi e dopo una formazione intensiva, trovava un severo costume di lavoro, abitudine a dibattere liberamente prima di decidere, insofferenza per le argomentazioni futili o non pertinenti, allergia al calcolo politico e all’ opportunismo.

Quei beni preziosi sono ancora presenti nella Banca d’ Italia e chiedono solo di essere riconosciuti e coltivati.

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Data
30 dicembre 2005
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera