Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 5 settembre 1999

I doveri della classe dirigente

L’Italia dopo l’euro


Per gran parte del decennio che si sta chiudendo l’ Italia e’ progredita sotto una duplice spinta esterna: dell’ Europa e dei mercati. Una spinta politica, costituita dai tempi e dalle condizioni dell’ Unione monetaria; e una spinta economica, costituita dal quotidiano giudizio del mercato finanziario internazionale sulla nostra capacita’ di rispettare quei tempi e quelle condizioni. Da poco piu’ di un anno e’ iniziata una fase nuova, in cui entrambe le spinte si sono attenuate. Per l’ Italia, la nuova sfida sta, oggi e negli anni a venire, nel generare dall’ interno lo stesso tipo di impulso che aveva permesso il miracolo dell’ ingresso nell’ euro.

Nella fase in cui ora si trovano l’ Italia e l’ Europa, non sono ne’ l’ Unione europea ne’ singolarmente gli altri Paesi a chiederci di frenare i prezzi per rimanere competitivi, di far arrivare lettere e treni, di trasformare le pensioni di anzianita’ e il trattamento di fine rapporto, di accorciare i tempi della giustizia, di insegnare le lingue ai giovani. Un Paese di 55 milioni di consumatori che sia debole come concorrente e inappetibile agli investitori esteri non suscita alcuna protesta ne’ commette alcuna infrazione; anzi fa la gioia dei suoi partner, purche’ con le sue carenze faccia danno solo a se stesso. E se i sintomi di quelle carenze non sono piu’ l’ inflazione e il disavanzo pubblico, ma la bassa crescita e l’ alta disoccupazione, neppure i mercati finanziari invieranno segnali o sanzioni.

Tanto dentro di noi, quanto negli osservatori di altri Paesi, alberga il dubbio che solo spinte esterne riescano a produrre i miracoli italiani. Non lo ritengo vero. E’ pero’ vero che la nuova sfida e’ particolarmente difficile e che sarebbe un errore attenderne la risposta soltanto dagli elettori a dalla classe politica.

Una sfida come quella che l’ Italia, al pari degli altri Paesi dell’ Unione, sta affrontando all’ indomani dell’ Unione monetaria riguarda soprattutto la classe dirigente di ciascun Paese.

Chi e’ la classe dirigente di un Paese?  composta dalle persone che hanno funzioni di decisione e di guida nella vita economica, culturale e politica, siano essi insegnanti, dirigenti d’ impresa, giornalisti, avvocati e magistrati, banchieri, sindacalisti o altro ancora. Queste persone non sono un gruppo costituito, non si scelgono ne’ sono elette, per lo piu’ non si conoscono tra loro, non decidono collettivamente alcunche’ . Esse sono, soprattutto in Italia e in Germania, geograficamente sparpagliate, socialmente eterogenee, culturalmente diverse. Eppure hanno in comune il fatto che le loro azioni e le loro decisioni, quale che ne sia il campo specifico, oltrepassano il confine del particolare, hanno un effetto generale, costituiscono modello per molti. Percio’ la classe dirigente ha, in punto di fatto, una funzione determinante nell’ andamento di una societa’ e di un Paese e porta su di se’ una corrispondente responsabilita’ . Dal punto di vista numerico essa e’ una frazione dell’ intera popolazione: forse poche migliaia o decine di migliaia di persone. Eppure la “cosa pubblica” e’ in non piccola misura nelle sue mani.

La nozione stessa di classe dirigente e l’ idea di una sua responsabilita’ generale vengono spesso respinte, soprattutto in Italia. Gli argomenti usati sono vari. Molti pensano che in una vera democrazia “i pochi”, le elite, scompaiano o debbano scomparire, perche’ sarebbero espressione d’ interessi particolari, inclini a distorcere il principio “una testa, un voto”. Altri credono che solo chi e’ nella professione politica ed esercita il potere abbia responsabilita’ generale. Altri ancora, operando nel mondo della cultura, considerano loro dovere e prerogativa proprio l’ affrancamento da quella responsabilita’ . Chi vive lontano dalla capitale crede talvolta che tutte le decisioni e le influenze a carattere nazionale abbiano origine a Roma. Molti infine ritengono che il farsi dell’ Europa segni la fine delle nazioni e che, se classe dirigente vi dev’ essere, dev’ essere europea o regionale, non nazionale. Sono, a mio giudizio, tutti argomenti fallaci; ognuno di essi puo’ essere, ed e’ stato, confutato in modo del tutto convincente.

Una classe dirigente non puo’ e non deve essere unita su tutto, tantomeno deve diventare un blocco di potere. La’ dove cio’ avviene le liberta’ politiche e civili soffrono, la societa’ si corrompe e l’ economia declina. La diversita’ , il ricambio, la concorrenza, perfino il conflitto, sono necessari e benefici. Essa deve tuttavia essere accomunata da un senso di responsabilita’ generale e dalla consapevolezza che vi e’ un limite oltre il quale quel senso deve prevalere. Il Risorgimento e la ricostruzione dell’ Italia repubblicana furono il merito di classi dirigenti. E fu un’ intera classe dirigente responsabile della dittatura e della guerra cominciata e persa.

Come paga per i propri errori (che il piu’ delle volte sono errori di omissione) una classe dirigente? Solo una sua esigua componente, i professionisti della politica, e’ soggetta a una vera sanzione: addirittura quella morte professionale che e’ la perdita del potere. Ogni altro suo esponente opera in campi e professioni (d’ intellettuale, sindacalista, burocrate, industriale) nelle quali nessuno lo chiama a rendere conto di come esercita, attraverso le sue azioni, la responsabilita’ di produrre effetti generali e di creare modelli. E’ perche’ in definitiva egli rende conto soprattutto alla propria coscienza, che le sorti di un Paese tanto dipendono dall’ etica della sua classe dirigente.

Per cogliere appieno i frutti del suo recente passaggio nell’ euro, l’ Italia ha bisogno della stessa tensione civile da cui scaturi’ quel successo. Quella tensione non verra’ da fuori. E’ compito della classe dirigente crearla.

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Data
5 settembre 1999
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera