Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 15 dicembre 2002

Un super presidente per quale Europa?

L’Unione a 25 dopo Copenaghen


Si è compiuto ieri l’ultimo passo dell’ultimo progetto europeo concepito dai grandi che governarono prima dell’attuale generazione: l’ingresso nell’Unione dei Paesi emersi dal crollo sovietico. Copenaghen rappresenta per la geografia europea ciò che il vertice di Bruxelles (maggio 1998) rappresenta per la moneta. D’ora innanzi è il turno della politica, e qui nuovi cantieri devono essere aperti affinché l’Europa sia fattore, non fattura, della storia. La discussione è già aperta.

Al centro della discussione qualcuno ha posto la magica parola «presidente». Si dice: per essere fattore di storia, l’Europa deve diventare unione politica. Deve poter dare sicurezza ai confini, contribuire a un ordine mondiale di pace e di giustizia, intervenire con forze proprie ove necessario, parlare e votare nell’Onu.

Di queste enunciazioni, che pochi oggi negano, si fa forte la proposta di dare all’Europa un Grande Presidente. Grande, perché egli presiederebbe il Consiglio europeo, nel quale si riuniscono periodicamente i capi di Stato o di governo, e poi ne attuerebbe le decisioni. Avremmo il nostro Bush e sapremmo finalmente rispondere alla domanda posta anni fa da Harry Kissinger: qual è il numero di telefono dell’Europa?

Sembra tutto più semplice, ma semplice non è. E’ certo vero che non abbiamo il nostro Bush: ma sono vere anche altre cose.

Primo, in questioni di moneta, commercio, concorrenza, l’Europa esiste e si fa sentire anche senza il Grande Presidente. Lo si vede quando Bruxelles blocca la fusione tra General Electric e Honeywell, o quando risponde colpo si colpo al protezionismo americano sull’acciaio.

Secondo, il presidente (della Commissione) ha lo stesso grado di legittimazione democratica del presidente del Consiglio italiano, o del primo ministro francese. Come loro è nominato da un organo superiore (capo dello Stato, Consiglio europeo) e come loro può governare solo se sorretto dalla fiducia di un Parlamento eletto. Ha meno poteri di loro perché l?unione ha meno poteri, non per difetto d’investitura.

Terzo, dove l’Unione non ha poteri (politica estera, sicurezza) non basterebbe il Grande Presidente a darglieli. Il nuovo Presidente di un’Europa senza poteri si rivelerebbe presto un presidente di carta.

Insomma, la discussione sul presidente sembra dimenticare – forse addirittura vuole nascondere – che, per essere forte là dove non lo è, l’Europa (presidente a parte) necessita di due leve: capacità di decidere e mezzi per agire.

Capacità di decidere significa deliberazioni a maggioranza. E’ evidente che l’unione nasce solo con l’eliminazione della paralizzante condizione dell’unanimità per decidere. Con l’esercizio del veto si vieta non solo una particolare decisione, si vieta il fatto stesso dell’unione. A nulla valgono le illusioni e le professioni di buona volontà: sempre ci sarà chi, possedendo l’arma del veto, la userà. Di più ancora, la mera possibilità del veto impedisce all’unione di esistere.

Mezzi per agire vuol dire strumenti propri, non presi a prestito. L’unione passa dal mondo delle idee a quello degli atti solo con l’allestimento di mezzi di bilancio, apparati militari, ambasciate, seggio alle Nazioni Unite, e via dicendo. Una decisione priva di esecuzione, di messa in atto, non è una decisione: è auspicio, raccomandazione, mugugno, fantasia.

Senza quelle due leve non sarebbe il Grande Presidente a fare forte l’Europa, sarebbe l’Europa a indebolire lui. Peggio: se creato al di fuori del quadro attuale delle istituzioni europee, quel presidente sarebbe nocivo perché (secondo la fatele logica del potere umano) difficilmente resisterebbe alla tentazione di rubare scena e funzioni al potere europeo che esiste. Invece di fare l’unione che manca, egli indebolirebbe quella che già c’è.

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Data
15 dicembre 2002
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera