Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 30 novembre 1997

Un patto Schengen per l’occupazione

Il problema piu’ sofferto dei Paesi europei UN PATTO SCHENGEN PER L’OCCUPAZIONE UN PATTO SCHENGEN “E’ l’inizio di un processo che avra’ tempi lunghissimi”, ha detto il presidente Prodi lasciando il Lussemburgo. Blair ha parlato di terza via tra dirigismo e liberismo. “Un punto di partenza e non di arrivo”, ha commentato Juncker. Tempi lunghissimi ci sono voluti per individuare e percorrere la strada che ha portato al mercato unico e all’euro. Un approccio comune alla disoccupazione, il piu’ sofferto problema dei paesi europei, e’ indispensabile per la sopravvivenza stessa dell’Unione. Per orientarsi si puo’ cercare risposta a due domande: in che senso la disoccupazione e’ problema europeo? Che cosa puo’ fare l’Unione per accrescere l’occupazione? Il problema e’ europeo, se e’ vero che nel ventennio 1977 – 96 gli Stati Uniti hanno creato oltre 34 milioni di posti di lavoro e l’Europa meno di 6. Ma sono forti le differenze tra ed entro i paesi. Siamo di fronte a connotati molteplici: regionali, nazionali, continentali. Dov’e’ la specificita’ europea? Studiosi del mercato del lavoro, dirigenti sindacali e d’impresa, uomini di governo e di opposizione convengono che essa stia non tanto nella sfera delle politiche macroeconomiche (monetarie, di bilancio), quanto nelle istituzioni del mercato del lavoro, nel costume di vita, nel sistema sociale. E’ comune a quasi tutti i paesi del continente il valore legale erga omnes dei contratti di lavoro stipulati dalle parti sociali. E’ comune una legislazione che protegge il lavoratore e sostiene il disoccupato. Per l’importanza ancora dominante dei legami familiari e di vicinato e’ comune l’attaccamento al luogo, non solo alla nazione, di origine. E’ comune la funzione preponderante di istituzioni sociali pubbliche – a carattere nazionale, non regionale o sovrannazionale – che danno alle persone istruzione, assistenza sanitaria, qualificazione professionale, pensioni di invalidita’ e di vecchiaia. In questo coacervo di istituti, comportamenti, tradizioni vi e’ il meglio di cio’ che la civilta’ europea ha costruito dal Medioevo a oggi. In particolare vi e’ il risultato dell’aver posto, per circa un secolo, la questione sociale al centro della vita politica. Si puo’ dire che solo nei paesi europei la fraternite’ sia stata assunta dallo Stato come un proprio compito, insieme alla tutela della liberta’ e dell’uguaglianza. E come della liberta’ e dell’uguaglianza abbiamo duramente sperimentato anche il lato oscuro e pericoloso, cosi’ oggi constatiamo che la solidarieta’ collettiva puo’ generare disoccupazione anziche’ benessere e far declinare il senso di responsabilita’ individuale, la capacita’ di rischiare, l’accettazione del lavoro come necessita’. Che sia inevitabile una correzione si va ora prendendo coscienza. Da questa premessa non discendono, pero’, indicazioni univoche per curare il male: la pur riconosciuta specificita’ europea non e’ sufficiente a determinare una terapia condivisa, dunque un’azione comune. La disoccupazione e’ in realta’ un terreno di conflitti, non solo un problema comune. Se chiude in Belgio, Renault puo’ non licenziare in Francia. Le imprese migrano dalla Germania orientale alla Repubblica Ceca, ma anche dall’Olanda all’Irlanda. Quando nel XIX secolo i sindacati dei lavoratori che a Saint Louis dovevano costruire il ponte sul Missouri apparvero piu’ esigenti di quelli di Chicago, il progetto per la ferrovia transamericana venne modificato, avviando lo sviluppo di una citta’ e il declino dell’altra. A dispetto dell’internazionalismo proclamato dal movimento socialista e sindacale, l’alta disoccupazione e’ stata per generazioni l’incubatrice del nazionalismo e del protezionismo: uno sviluppo perverso, cosi’ bene descritto da Altiero Spinelli oltre 50 anni fa. Governanti europei appartenenti a famiglie politiche opposte hanno avvertito, in Lussemburgo, la pericolosita’ del fronte dell’occupazione e cercato una strada da percorrere insieme. Anni fa, per fare il mercato unico, i paesi hanno riscoperto il metodo della concordia discors: una competizione tra sistemi disciplinata da regole costituzionali comuni. L’hanno praticato con determinazione, anche rompendo antichi monopoli nazionali nei settori del trasporto e di altri servizi pubblici. Stanno per sigillarlo con la rinuncia al nazionalismo monetario. Ci si chiede allora se quel metodo possa essere una chiave (una, non l’unica) per affrontare la necessaria trasformazione del mercato del lavoro. E’ un metodo fondato sulla combinazione di due elementi: parziale armonizzazione e reciproco riconoscimento delle norme nazionali. Nessuno dei due elementi sarebbe, da solo, risolutivo: l’armonizzazione totale, tentata per anni, sarebbe interminabile e vessatoria; l’assenza di ogni regola comune sarebbe l’anarchia economica. E’ difficile giustificare perche’ lo stesso metodo non sia applicato al lavoro. La Deutsche Bank puo’ operare a Milano o Madrid con proprie succursali in tutto identiche a quelle di Amburgo e Dusseldorf: stessi prodotti finanziari, stessi servizi alla clientela, stessa autorita’ di vigilanza, tra poco stessa moneta. Non puo’ invece applicare lo stesso contratto di lavoro. Una parte crescente, ormai preponderante, del prodotto nazionale e dell’occupazione viene dai servizi. Ancor piu’ dei manufatti, i servizi sono lavoro, e sono lavoro fornito direttamente dal produttore, spesso sul luogo stesso del compratore. Impedire la coesistenza territoriale tra norme sul lavoro significa impedire il mercato unico dei servizi. Certo, tra i contratti di lavoro vi e’ gia’ oggi una concorrenza a distanza: il portuale di Rotterdam e’ in concorrenza con quello di Amburgo; gli operai Electrolux che fanno la stessa lavastoviglie a Pordenone e ad Alingsas (Svezia) sono tra loro concorrenti; perche’ non possono stipulare e negoziare lo stesso contratto con il padrone comune? Perche’ un gruppo di portuali di Amburgo non puo’ difendersi da Rotterdam adottandone le regole? Si mantengono cosi’ i lavoratori e le loro organizzazioni nella pericolosa illusione che esistano ancora economie chiuse; illusione che cade di colpo solo quando la insufficiente competitivita’ di un sistema contrattuale ha ormai portato alla crisi un’impresa o un settore. Non sfugge, a chi scrive, l’effetto potenzialmente dirompente di una Schengen del lavoro in cui si muoverebbero non i lavoratori ma le norme sul lavoro. Enormi sono i problemi che si devono risolvere per consentire e disciplinare l’applicazione al lavoro del contratto del paese di origine. Problemi di sicurezza sociale e di regimi pensionistici, di organizzazione sindacale e di magistratura del lavoro. Ma e’ difficile sostenere che si tratti di problemi tecnicamente e politicamente piu’ ardui di quelli che sono stati affrontati e risolti per creare il mercato unico nonostante la resistenza di formidabili interessi costituiti. Ed e’ difficile negare il vantaggio, per le organizzazioni sindacali, di darsi una vera struttura europea. Al Trattato di Maastricht si accompagna una Carta Sociale che altro non e’ se non la regola armonizzata al di sotto della quale per l’impulso della concorrenza la tutela del lavoratore non deve scendere. Forse da li’ si puo’ partire.

Stampa Stampa
Data
30 novembre 1997
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera