Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 15 novembre 2005

Quel nemico sempre vicino

Londra, Parigi: modelli d’integrazione in crisi.


Ieri la metropolitana di Londra, oggi la periferia di Parigi: minacce alla sicurezza della società che non esploderebbero senza la nuova immigrazione nell’ Europa di oggi. Sono crisi di un particolare modello d’ integrazione, il britannico o il francese?

Molti rispondono di sì e sottolineano soprattutto le differenze tra caso inglese e francese: fallimento del modello multiculturale, le bombe di Londra; del modello integrazionista, i disordini di Parigi. Errori di Blair nella politica estera e militare; di Chirac nella politica economica e sociale. Rivolta sociale in Francia, etnica e religiosa in Gran Bretagna. È sorprendente la sicumera con cui in ciascun Paese i commenti locali hanno bollato gli incidenti dell’ altro Paese come conseguenza del suo modello sbagliato.

Certo, le differenze non sono da poco. A Londra atti terroristici accuratamente preparati e compiuti da militanti, mirati alle persone, nel cuore della capitale. In Francia rivolta spontanea, senza manifesto ideologico o religioso, indirizzata alle cose, ai margini della grande città. A Londra, giovani che vogliono morire; a Parigi, giovani che vogliono vivere. In un caso, legame diretto con l’ 11 settembre e la guerra all’ Iraq; nell’ altro, scoppio di rabbia e frustrazione sociale.

I due modelli vanno sotto il nome di multiculturale e integrazionista. I loro archetipi sarebbero Stati Uniti e Francia, due Paesi a fortissima immigrazione. Nel primo modello l’ immigrato conserverebbe identità e appartenenza al gruppo d’ origine. L’ ospitante chiederebbe all’ entrante solo il rispetto della Costituzione e delle leggi; privo di una cultura propria, il Paese sarebbe un arcipelago di comunità identificate da cultura o religione o etnia o lingua. Nel secondo modello il Paese offrirebbe all’ immigrato di diventare cittadino a titolo pieno, ma gli chiederebbe di spogliarsi della sua appartenenza di gruppo. In Europa, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Germania seguirebbero il modello multiculturale.

Descritti così, in termini concettuali, i due modelli sembrano opposti e incompatibili, proprio come parte della stampa ce li presenta. Nella realtà, tuttavia, gli elementi comuni non sono mai mancati; e per di più le differenze oggi impallidiscono di fronte alla particolare immigrazione dell’ ultimo mezzo secolo. Primo: gli elementi comuni non sono mai mancati. Anche dove lo si proclamava, il multiculturalismo era costume sociale, non ordinamento costituzionale; osservavamo società multiculturali, non Stati multiculturali. Da un lato, in America, la legislazione è la stessa per tutti e si indirizza all’ individuo cittadino, non al gruppo etnico o religioso, prescrive la monogamia anche a chi, mormone o musulmano, ha un credo poligamico. Dall’ altro, in Francia, la laicità dello Stato e il diritto di formare associazioni rendono libera la pratica di religioni diverse e la formazione di gruppi organizzati intorno a una comune idea, provenienza geografica, colore di pelle, costume. Le differenze non mancano, soprattutto dovute alla diversità dei sistemi scolastici e, in generale, alla più o meno pervasiva presenza dello Stato nella vita economica e sociale. Ma, pur affidandosi in misura diversa allo Stato e al corpo sociale, entrambi i modelli operano come meccanismi di assimilazione.

Secondo: le differenze impallidiscono di fronte alla nuova immigrazione. Milioni anziché decine di migliaia; diversità di colore, religione, costume, non solo di lingua. Per dimensione e diversità il flusso dei nuovi venuti non ha confronto con le migrazioni intraeuropee del passato ed è tale da sconvolgere ogni modello, forse la nozione stessa di assimilazione. Anche nella Milano o nella Torino degli anni Sessanta i pugliesi da poco arrivati con la valigia di cartone vivevano negli stessi caseggiati e frequentavano gli stessi bar, diversi da quelli dei lucani; anche per essi una città ostile, bocciature a scuola, ristoranti o circoli che non li lasciavano entrare. Lo stesso per gli italiani in Belgio o in Germania. Le differenze si sciolsero in una generazione, con l’ aiuto di economie che crescevano a ritmi quasi cinesi. Nelle città europee ora le differenze perdurano, e i nipoti, seconda generazione nata in Europa, sono ancor più spaesati dei padri e dei nonni.

Quando ha caratteristiche di tale portata, l’ incontro tra flusso migratorio e società di accoglienza è una mutazione storica; non si esaurisce in pochi anni ed è destinato a trasformare in modo duraturo economia, cultura, struttura sociale, leggi, sistemi politici dell’ Europa.

Nel pensare e nel prepararci a questa trasformazione non dobbiamo dimenticare che quell’ incontro è dettato da una necessità, ma nello stesso tempo è frutto di una scelta e che avviene nel segno costruttivo del lavoro, non in quello distruttivo delle armi. I nuovi venuti ci hanno cercati per vivere con noi e nello stesso tempo sono stati da noi cercati, per costruire strade, pulire case, accudire malati e anziani, fare i turni di notte in fabbrica, raccogliere pomodori. Non ci hanno invasi come nemici, ciò che pure tante volte accadde nei secoli passati in quasi ogni Paese europeo; non sono stati chiamati dai nostri governi, ma dalle famiglie e dalle imprese.

Quaranta anni fa l’ ideologia adescatrice era la lotta di classe; oggi è l’ identità etnica e religiosa. Entrambe insufficienti perché la diversità è etnica, sociale e culturale nello stesso tempo. La forte solidarietà di gruppo creata dalla vecchia ideologia di classe era cogente, ma conteneva pur sempre una elezione, una adesione libera, una via d’ uscita, che mancano nel gruppo etnico, geografico e spesso perfino in quello religioso. L’ ideologia della lotta di classe ha ignorato e represso le realtà etniche e culturali sino al punto da farle poi esplodere in tragedie. Ma oggi la polarizzazione sui fattori etnici e culturali impedisce di vedere e provvedere a quello che, in parte non piccola, è un malessere sociale.

In un bellissimo film del 1994 («Prima della pioggia») il macedone Manchevski racconta in modo struggente come odio e ferocia si siano insinuati tra cristiani e musulmani in un villaggio dei Balcani. La vita era tranquilla tra famiglie conviventi da generazioni: acqua raccolta alla stessa fontana, aiuto reciproco nella difficoltà, ricordi comuni. Ma la caduta dalla gentilezza alla brutalità è travolgente, quasi istantanea, storce la mente e obbliga il singolo a odiare e uccidere. Il rischio che alcune città d’ Europa divengano come il villaggio raccontato da Manchevski va guardato in faccia.

È consolante allora, per un italiano, udire le parole umane e politiche del suo ministro dell’ Interno, mentre il collega francese chiama «feccia» Rocco e i suoi fratelli.

L’ amico può anche essere lontano; il nemico, invece, è sempre vicino. È qualcuno con cui conviviamo, con cui abbiamo molto in comune, col quale ci siamo, fino a ieri, reciprocamente cercati e col quale dovremo ritrovarci domani.

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Data
15 novembre 2005
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera