Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 20 dicembre 2004

Patto di stabilità. Riscriverlo o no?

Parametri e sostanza delle critiche


Il lettore faccia la tara del mio argomentare perché, diversamente dal solito, nella questione di cui oggi scrivo ho un interesse costituito. La Banca centrale europea, dove svolgo servizio, vi ha, infatti, una sua posizione. Potrei dissentirne e tacere, o parlare solo per disciplina di partito; invece la condivido, e vorrei spiegare perché.

Il tema è la riforma del Patto di stabilità e di crescita, regola europea per i bilanci pubblici nazionali, scritta negli Anni 90. Ridotta all’ osso, essa prescrive che ogni Paese: a) abbia normalmente il bilancio in pareggio; b) non superi, salvo circostanze eccezionali, un disavanzo del 3% del Prodotto interno lordo (Pil); c) riduca l’ incidenza del debito pubblico sul Pil se essa supera il 60%. La regola naturalmente è corredata di procedure e sanzioni.

Da quasi un anno si parla di riscriverla e i prossimi mesi decideranno il se e il come. Si può voler scrivere diverso: in buona sostanza un patto più indulgente, che per esempio escluda dal calcolo certe spese, o consenta di superare il 3%, o dia più tempo per rientrare. Oppure si può voler solo scrivere meglio, mantenendo però invariato il rigore della disciplina.

Non inganniamoci, se si prenderà la penna il risultato quasi inevitabile sarà un Patto meno severo, quale che sia il proposito. A Bruxelles non deliberano letterati, ma governanti alle prese con anni di bassa crescita, pressioni economiche e sociali, scadenze elettorali.

Si va allora al cuore della questione, alla critica fondamentale. Il Patto, si dice, dà una stabilità funesta: la bassa crescita gonfia il disavanzo (perché il minor reddito riduce il gettito tributario ma non le spese) ed è abbassata ancor più dalle misure antideficit. Un circolo vizioso, il Patto è di stabilità ma non di crescita.

È fondata la critica? Non lo è. Nessuna teoria economica, nessuna esperienza storica (Italia Anni 50-60, Giappone Anni 60-80) prescrivono alti disavanzi per far crescere l’ economia. La finanza pubblica è legata alla crescita, ma da tre parametri diversi da quelli che il Patto considera (disavanzo e debito). Il primo di questi parametri è la dimensione: un bilancio più snello di solito favorisce la crescita. Il secondo è la qualità della spesa: educazione, ricerca, infrastrutture fanno crescere più che pensioni d’ invalidità ai sani o postini in soprannumero. Il terzo è la struttura delle tasse: possono favorire l’ investimento e il lavoro, o invece l’ ozio e la rendita. Ebbene, il Patto lascia questi tre parametri interamente nelle mani dei Paesi membri, liberissimi di manovrarli come vogliono, purché disavanzo e debito non superino quei limiti. Certo sono parametri più faticosi da manovrare, ma sono i soli che contino per la crescita.

Stare negli argini stretti del Patto significa essere obbligati ad agire proprio sui parametri scomodi da cui la crescita dipende, astenendosi dal toccare quelli più seducenti da cui essa non dipende.

Governare richiede anche decisioni ingrate; e Bruxelles è spesso il luogo dove i governi nazionali si aiutano a vicenda nella parte più pesante del loro compito. È la loro seconda casa, dove stringono patti per alleviare la fatica di decisioni, sagge ma impopolari. Impopolari, perché gli interessi diffusi cui giovano sono meno organizzati e rumorosi di quelli che (spesso addirittura nel Consiglio dei ministri) le contrastano; ma sagge, perché utili al bene comune e perché alla lunga pagano. Bruxelles è il luogo dove l’ orizzonte si allarga e la politica ritrova il tempo lungo indispensabile per ben governare. Conviene davvero usurare la seconda casa per peggiorare la vita nella prima?

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Data
20 dicembre 2004
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera