Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 26 giugno 2000

Liberare l’avanguardia europea

Il diritto di andare avanti


Una breve frase del comunicato finale fa sperare che a Santa Maria da Feira, la località del Portogallo dove nei giorni scorsi si è riunito il vertice dell’ Unione, sia stato compiuto un buon passo per il futuro dell’ Europa. Si è, infatti, deciso di ridefinire, per renderli più efficaci, i modi attraverso cui alcuni Paesi che lo vogliano potranno, anche senza la partecipazione degli altri, realizzare «forme di cooperazione più stretta utilizzando le istituzioni, le procedure e i meccanismi previsti dai Trattati» (questa è la formula oggi usata). Si potrebbe parlare di un «diritto dell’ avanguardia».

L’ unificazione dell’ Europa è sempre stata trainata da un’ avanguardia: solo sei Paesi la fondarono e la fecero vivere per quasi venticinque anni; solo alcuni prepararono e realizzarono la moneta unica; pochi decretarono a Schengen l’ abolizione delle frontiere; pochi stanno costruendo una forza militare comune.

Formalmente, il diritto dell’ avanguardia fu introdotto nel Trattato quattro anni fa ad Amsterdam, ma per il suo esercizio furono fissate procedure talmente stringenti da renderlo inutilizzabile. Un diritto codificato non è tale se le condizioni poste per il suo esercizio sono impossibili. Ora si è deciso di rivedere quelle condizioni. Codificare il diritto dell’ avanguardia è ormai necessario; è anche giusto, ma è molto difficile. Vediamo di spiegare perché.

Permettere a un’ avanguardia di Paesi di precedere gli altri nella costruzione dell’ Europa unita è necessario per il futuro, ancor più di quanto sia stato per il passato. L’ Europa attuale non è stata fatta con un singolo atto costituente. E’ , come si dice, un processo; iniziato 50 anni fa, e finora incompiuto. Affinché si compia, occorre arrivare al porto sicuro dell’ unione politica.

Se procedesse alla velocità della nave più lenta, il convoglio resterebbe fermo in mare aperto. Il pericolo della tempesta, perfino di un brusco risveglio dalla pace alla guerra, non è ancora scomparso, anche se i giovani non l’ avvertono (ma neppure i miei nonni l’ avvertirono nel 1914).

Quando il numero degli Stati membri sarà salito a 20, poi 25 o 30, il processo rischierà di bloccarsi del tutto. Bloccandosi, l’ Unione tradirebbe non solo l’ intento per cui fu fondata, ma anche le vere attese di chi aspira a entrarvi. Che quel diritto sia codificato e disciplinato, anziché essere semplicemente esercitato nei fatti, è una necessità per tutti: all’ avanguardia permette di utilizzare «le istituzioni, le procedure e i meccanismi» comunitari, cioè la base stessa su cui l’ Europa si è fin qui costruita; alla retroguardia garantisce che i diritti acquisiti saranno rispettati.

Assicurare il diritto dell’ avanguardia a chi vuole esercitarlo è anche giusto. Fin dal primo trattato europeo (1950, Comunità del Carbone e dell’ Acciaio) fu stabilito che «la Comunità è aperta a tutti gli Stati europei che vogliano farne parte». Fu uno straordinario segno della scelta etica posta a fondamento di ciò che s’ intraprendeva. Nessun privilegio per i fondatori. Non il patto tra i vincitori che ancor oggi regge le Nazioni Unite (dove Germania, Italia e Giappone hanno minori diritti di Francia e Gran Bretagna), bensì la riconciliazione tra fratelli nemici. Ovviamente, il diritto dell’ avanguardia non dev’ essere riservato ai fondatori, ma a chiunque voglia; e le sue applicazioni devono essere aperte a chiunque le accetti, anche in un momento successivo. Esso è il naturale complemento del diritto d’ ingresso tardivo. Va lodato William Hague, successore di Margaret Thatcher alla testa dei conservatori britannici, per avere affermato che il Regno Unito non deve impedire agli altri la completa unione politica dell’ Europa, ma limitarsi a rifiutarla per sé. Quando qualche Paese candidato, prima ancora di esservi accettato, sembra opporsi al diritto dell’ avanguardia, ci si chiede se abbia davvero capito il senso dell’ Unione e se sia qualificato ad entrarvi.

Ma regolare il diritto dell’ avanguardia è anche molto difficile e diviene più arduo al progredire dell’ unificazione. Il motivo sta nel fatto che, se la «cooperazione più stretta» deve veramente servire ad accelerare il passo verso l’ unione politica, allora essa non può limitare il suo oggetto al nuovo, escludendo la revisione del vecchio. Per intenderci: «nuovo» può essere la creazione di un corpo di polizia europeo o l’ invio di una forza di pace in una regione limitrofa; «revisione del vecchio» è l’ abbandono della regola dell’ unanimità in tutti i campi in cui il Trattato ancora la prescrive (da quello fiscale alle procedure di emendamento del Trattato stesso), il riconoscimento al Parlamento europeo del potere di codecisione in tutti gli atti legislativi importanti, lo sviluppo di un «governo economico» per Eurolandia, il rafforzamento della Commissione. Non serve a molto lasciar partire un’ avanguardia, se le s’ impedisce di dirigersi verso la meta necessaria. La prima necessità è far funzionare meglio quello che c’ è, sottraendolo alla paralisi del metodo intergovernativo e rafforzandone il controllo democratico. Solo così l’ Europa diverrà unione politica nei campi in cui già esiste. Solo così persuaderà le opinioni pubbliche e le forze politiche a svilupparla anche in alcuni campi nuovi, quelli dove la sovranità nazionale è ormai un’ illusione. La Conferenza intergovernativa che concluderà i suoi lavori a Nizza in dicembre dovrà dar prova non solo di buona volontà politica ma anche di inventiva in materie istituzionali.

Se terrà la sua strategia europea al riparo dalla contesa politica interna, l’ Italia potrà fare molto, nei prossimi mesi, per la buona qualità del risultato finale. L’ essere Paese fondatore della Comunità, l’ aver saputo entrare subito nell’ euro (ci ha pensato chi ancor oggi se ne rammarica?), la vastità del consenso europeo tra i cittadini, la presenza a Strasburgo in gruppi parlamentari tradizionalmente pro europei, la provenienza italiana del presidente della Commissione, sono tutti elementi che consentono oggi all’ Italia, come spesso in passato, di rendere determinante la sua pur limitata influenza, tanto per la direzione quanto per la velocità del movimento in corso. Può bastare un piccolo peso a far pendere la bilancia dalla parte giusta. La lucida visione del percorso europeo e del congiunto interesse italiano di cui sono state capaci, lungo i decenni della storia repubblicana, componenti anche molto diverse del nostro sistema politico, è un patrimonio nazionale che va conservato e arricchito.

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Data
26 giugno 2000
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera