Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 26 marzo 2000

L’Europa morbida che cerca lavoro

Se la goccia di Lisbona “scava” la pietra


In due giorni d’ incontri, a Lisbona, i capi di Stato e di governo dell’ Unione Europea hanno cercato vie per aumentare l’ occupazione e la crescita economica. Le hanno cercate nei verdi giardini della nuova economia, ma anche nella boscaglia degli attuali sistemi economici. Dal primo incontro di questo tipo (Lussemburgo, novembre 1997) sono passati due anni e mezzo. Ci possiamo chiedere: che cos’ e’ una politica europea dell’ occupazione? Quali strumenti possiede? Che risultati puo’ dare?

Innanzi tutto: la disoccupazione e’ davvero un fatto europeo? Non lo e’ , se osserviamo che essa va dal 2,7 per cento olandese al 15,1 spagnolo. Ma possiamo, noi italiani, affermare che la nostra disoccupazione e’ un fenomeno regionale solo perche’ i senza lavoro sono soprattutto al Sud? Non lo possiamo dire. Sia le cause sia i rimedi sono, infatti, prevalentemente nazionali. Il Mezzogiorno, come l’ Est della Germania, e’ il punto in cui la corda tesa si spezza; ma la tensione della corda e’ creata da soggetti nazionali: governi, sindacati, parlamento, magistratura.

In che senso, allora, la disoccupazione e’ europea? Lo e’ da un punto di vista statistico, perche’ l’ Unione e’ la parte del mondo industrializzato dove essa si concentra e quella che, nell’ ultimo quarto di secolo, ha creato meno posti di lavoro: 18,7 milioni contro 50,9 negli Stati Uniti fra il 1970 e il 1997. Ma, se guardiamo a quelle profonde, lo e’ anche dal punto di vista delle cause. Tra gli studiosi e gli esperti di questioni del lavoro, non solo in Europa, vi e’ accordo sul fatto che gran parte della disoccupazione europea nasce, o e’ perpetuata, da un insieme d’ elementi comuni alle nazioni europee, rari in altri continenti. Vanno sotto il nome di “protezione sociale”. Essi sono leggi, regolamentazioni, pratiche amministrative, istituzioni, costumi, valori accettati attraverso cui, in tempi e modi diversi da Paese a Paese, l’ Europa ha affrontato la questione sociale nel corso del ventesimo secolo. Si parla in Germania di economia “sociale” di mercato, in Italia di Stato “sociale”.

La stretta rete della protezione sociale costituisce una conquista e un vanto della societa’ europea; la coscienza civile dei piu’ non accetterebbe, oggi, di cancellare quel progresso. Col tempo, tuttavia, essa e’ diventata una gabbia stretta, che non solo impedisce la crescita economica e la creazione di nuovo lavoro ma neppure protegge i piu’ deboli. E quasi tutti i Paesi europei devono ora attuare riforme che correggano, senza abbandonarle, le ancor recenti conquiste dello Stato sociale. Cosi’ come sono, esse aggravano, anziche’ lenirli, i mali che intendevano curare. Nelle parole del presidente portoghese Guterres: “Il modello sociale europeo puo’ essere preservato solo costruendo nuovi fattori di competizione e rinnovando il modello sociale stesso”.

Quali sono gli strumenti europei per attuare una riforma siffatta? Ad un primo sguardo essi appaiono insufficienti. Infatti, mentre l’ Europa, la’ dove si e’ fatta davvero, opera in una sfera sovranazionale e pubblica, gli istituti dello Stato sociale sono nazionali e, spesso, privati, perche’ la loro formulazione e’ stata lasciata alle organizzazioni dei lavoratori e delle imprese (le quali non sono neppure disciplinate dalla legge).

Quelle che l’ Europa ha a portata di mano, e che a Lisbona ha cercato di perfezionare, sono le armi morbide del fissare obiettivi, dell’ enunciare principi, del confronto competitivo, dell’ emulazione, dell’ influenza reciproca.

Chi scrive ha ritenuto e ritiene che per progredire verso l’ unione politica l’ Europa debba ancora rafforzare i propri strumenti duri, ed estenderne il campo d’ applicazione: norme vincolanti, competenze sovranazionali, decisioni a maggioranza, poteri della Commissione. Nella stessa sfera del lavoro, si potrebbero forse avviare pratiche piu’ incisive di tutela della concorrenza e considerare il mutuo riconoscimento di alcune normative sul lavoro in una medesima area geografica.

Detto questo, tuttavia, non si puo’ ignorare che se in queste materie l’ Europa volesse usare norme vincolanti, come ha fatto per la creazione del mercato unico, essa compirebbe non una riforma ma una rivoluzione, sovvertirebbe un vero e proprio ordine costituito. E non e’ certo che ne farebbe sempre saggio uso, perche’ forte sarebbe la tentazione di portare uniformita’ dove occorre diversita’ , di irrigidire cio’ che va invece reso flessibile.

Che risultati possono dare gli strumenti morbidi? Forse maggiori di quanto si pensi. Sono sotto gli occhi di tutti i successi conseguiti non solo dal Regno Unito, che forse ancora raccoglie i frutti seminati da Margaret Thatcher, ma anche dall’ Austria e dall’ Olanda, Paesi governati a lungo dalla sinistra e dove il sindacato e’ forte; o dalla Spagna e dal Portogallo, che per lungo tempo gli italiani hanno guardato con qualche condiscendenza. Ognuno puo’ constatare che un’ impresa multinazionale in cerca del sito piu’ conveniente per un nuovo investimento ha scelto, dopo accurato confronto, il Paese dove le pratiche amministrative sono piu’ rapide e oneste, i servizi postali e telefonici piu’ efficienti e meno costosi, la giustizia civile e amministrativa piu’ rapida e trasparente, i sindacalisti piu’ ragionevoli. Ognuno puo’ constatare la buona riuscita, in un Paese, di riforme che il sindacato o gli imprenditori avversano fieramente in un altro.

Tra i documenti presentati a Lisbona vi e’ lo studio sul tema angoscioso della disoccupazione di lunga durata, predisposto per i primi ministri Blair e D’ Alema. Vi e’ da augurarsi che la sua fulminea condanna, da parte di alcuni dirigenti sindacali, non ne scoraggi la diffusione e, soprattutto, la lettura. E’ scritto con chiarezza e contiene argomentazioni solide e persuasive. Una sua lettura sarebbe utile anche a molti quadri sindacali in cerca di buone idee per accrescere l’ occupazione. E’ un contributo alla via morbida dell’ Europa sul tema del lavoro. Gutta cavat lapidem: gocce d’ acqua scavano la pietra.

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Data
26 marzo 2000
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera