Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 29 novembre 1998

La riforma del lavoro

Senza libertà non c’è occupazione


Le ultime decisioni politiche riguardanti l’avvio dell’Euro vennero prese all’inizio di maggio: valutazione della convergenza raggiunta, scelta dei Paesi partecipanti, rapporti di cambio definitivi. Da allora le strade dei banchieri centrali e quelle dei politici si sono divise. I primi con l’avvio della Banca Centrale Europea hanno concentrato ogni sforzo nella preparazione, soprattutto tecnica, dell’Euro. La politica, invece, sentitasi come liberata dalla fatica pluriennale della convergenza e del risanamento, ha cercato nuove priorita’, talora spintavi dagli elettori.

Non stupisce che, nonostante l’attuale ripresa produttiva, ridurre la disoccupazione sia divenuto in Europa il primo obiettivo politico: tutti sanno che negli ultimi dieci anni i posti di lavoro creati in America sono stati oltre diciassette milioni e in Europa solo quattro e mezzo. Ne’ devono sorprendere difficolta’, esitazioni e contrasti sui modi per raggiungere maggiore occupazione.

Una premessa. Ho argomentato altre volte che nell’ordinamento dell’Euro, solo la politica del lavoro rimarra’, diversamente da quella monetaria e(in parte) da quella di bilancio, quasi esclusivamente nazionale. Ciononostante, ai Paesi resteranno strumenti del tutto sufficienti a ridurre la disoccupazione. La novita’ sara’ che in un mercato aperto con moneta unica la posta in gioco aumentera’: per le politiche giuste il premio sara’ maggiore, piu’ pesante la sanzione per quelle errate.

La parola “giusta” e’ usata qui nel duplice senso di “adatta allo scopo” (creare posti di lavoro) e di “conforme a giustizia” sociale: insomma, efficienteed equa. Se questa e’ la chiave: come dev’essere tale politica? E chi deve attuarla? Cerchiamo di contribuire alla risposta con due brevi proposizioni.

Prima proposizione. Giusta politica del lavoro e’ quella, e solo quella, che rende piu’ libero e conveniente l’incontro tra il lavoratore e l’impresa. Non e’ un’affermazione provocatoria. Per oltre un secolo, in Europa, il valore dominante della questione sociale e’ stato l’equita’ nei confronti di colui che lavorava. Un’accezione che si contrapponeva all’efficienza. L’efficienza era interesse del padrone. Nel perseguire quella equita’ l’Europa ha pensato e poi creato gli ordinamenti dello Stato sociale, cosi’ come nei due secoli precedenti aveva pensato e poi creato costituzioni fondate sulla separazione dei poteri e sulla democrazia; contributi alla civilta’ umana che ancora sono modelli al mondo. Ma oggi la vera iniquita’ e’ quella che impedisce al senza lavoro e a chi vorrebbe dargli lavoro (spesso un lavoratore come lui, un artigiano bravo, un idraulico, un ristoratore, non un feroce padrone delle ferriere) di stipulare legalmente e liberamente un contratto di lavoro conveniente a entrambi, e di mantenerlo e modificarlo finche’ la reciproca convenienza permanga. E’ una iniquita’ che si presenta travestita in panni innocenti: garanzia del posto, paga minima, ferie lunghe, mansioni ben definite, pensione precoce, bagni separati per uomini e donne, e via dicendo. Tutele sacrosante, che i lavoratori (occupati) hanno faticosamente conquistato; ma che sono state dilatate sino a pervertirsi in strumenti che escludono il disoccupato dal recinto del lavoro: milioni di uomini e donne, soprattutto giovani, spesso concentrati in poche regioni d’Europa come il Mezzogiorno italiano e l’Est della Germania.

Nessuna politica dell’occupazione puo’ oggi essere giusta se rifiuta una vera riforma del lavoro, che corregga e parzialmente abbandoni le sue stesse conquiste di ieri in tutta la misura necessaria a ripristinare la piena occupazione. Vi e’ il pericolo che cosi’ si ritorni al mondo spietato di Dickens e Zola? No, non nell’Europa di oggi.

Seconda proposizione. Il compito principale di riforma del lavoro spetta ai sindacati dei lavoratori. Certamente vi sono anche i governi, i Parlamenti e i partiti politici e a questi devono aggiungersi imprenditori, pretori del lavoro, magistrati amministrativi, funzionari statali e locali, dirigenti di azienda, altri ancora. Ma l’ampiezza di questa moltitudine non deve oscurare il fatto che, proprio perche’ la tutela del lavoratore e’ stata una sua conquista, il sindacato nell’Europa continentale ha ottenuto il potere decisivo in materia sociale; direttamente, o attraverso una delega dei grandi partiti popolari nati dal suffragio universale, o attraverso la presenza di proprie persone in punti nevralgici del sistema.

Sono per lo piu’ di estrazione o di fedelta’ sindacale i ministri del Lavoro, i responsabili del lavoro dei partiti e delle commissioni parlamentari competenti, la dirigenza di grandi aziende pubbliche e di settori importanti dell’amministrazione, addirittura i capi del personale delle imprese, i professori di Economia e di Diritto del Lavoro, una parte della magistratura. Non deve sorprendere che, nelsecolo della questione sociale, la forza che ha il merito storico delle lotte sociali e delle conquiste del lavoro abbia fatto cultura ed esercitato egemonia, come si usa dire. Ma poiche’ e’ rispetto ai problemi di oggi che devono essere ormai valutati i suoi comportamenti, non si puo’ non vedere che il sindacato ha la responsabilita’ di avere troppo rigidamente difeso quelle conquiste, sino a sacrificare l’occupazione e a mettere in pericolo, o perdere, il proprio ruolo. Non ha abbastanza guardato e ascoltato chi era fuori dal recinto.

La riforma del lavoro e’ compito primario del sindacato, anche perche’ richiede un parziale abbandono di posizioni che proprio il sindacato aveva conquistato. Solo in Gran Bretagna essa e’ stata compiuta daun governo (Thatcher) che aveva l’intento dichiarato di porre fine al potere sindacale e che percio’ cercava lo scontro con esso. Nell’Europa continentale nessun Paese ha seguito quell’esempio e tuttavia la riforma del lavoro si e’ avviata con successo in alcuni casi, attraverso l’incontro col sindacato: la Danimarca e l’Olanda, dove il tasso di disoccupazione e’ la meta’ di quello italiano e tedesco, sono esempi significativi. Cosi’ la Svizzera. E si incominciano a muovere nello stesso senso laFrancia e la Spagna dove, come in Irlanda, Finlandia, Portogallo, l’occupazione cresce ora rapidamente. La crescita e’ invece lenta in Italia e in Germania, dove la disposizione a una riforma del lavoro e’ minore. La caduta di Kohl si spiega anche con l’insuccesso nel persuadere o costringere le proprie componenti sindacali interne alla riforma del lavoro che pure veniva predicata. Senza la lungimiranza e il coraggio del sindacato italiano l’inflazione non sarebbe crollata e non saremmo nell’Euro. Lungimiranza e coraggio sono indispensabili per una riforma del lavoro che crei occupazione. Il tempo e’ poco.

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Data
29 novembre 1998
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera