Tipo: Articoli Fonte: Corriere della sera 28 novembre 2002

L’ Europa ha perso slancio ora la scommessa è politica

FRANCOFORTE – L’ economia europea ristagna perché ristagna l’ Europa. Perché manca nell’ Unione una consapevolezza del proprio ruolo e del proprio destino, una visione, un progetto di futuro, il senso di una missione collettiva e della propria responsabilità di fronte alla storia. L’ economia non cresce se non cresce la società. E la società europea ha smesso da dieci anni di investire su se stessa, sulla propria identità e sul proprio futuro. Ora la Convenzione presieduta da Valery Giscard d’ Estaing può essere l’ occasione per ridare al Continente quello slancio che, solo, è in grado di rimettere in moto anche l’ economia e la crescita. Sono mesi che Tommaso Padoa-Schioppa, l’ unico italiano a sedere nel board della Banca centrale europea, si arrovella sulle ragioni di una stagnazione a cui gli economisti non riescono a trovare spiegazioni convincenti. Ed ora, nel salotto-studio del sobrio appartamento ricavato in una villetta di un quartiere residenziale di Francoforte, espone a Repubblica il frutto delle sue riflessioni sposando economia e politica, storia e morale. Perché, spiega, nessuna analisi econometrica è in grado di prescrivere la medicina di cui l’ Europa ha bisogno per ricominciare a crescere. Professore, siamo sulla soglia di una recessione europea? «Il problema dell’ Europa non è tanto il pericolo di recessione, quanto la cronicità della lentezza della crescita che da una decina d’ anni caratterizza l’ economia europea. Di fronte a questa situazione la prima cosa che si deve fare, come economisti e fabbricatori di previsioni troppo spesso smentite, è un atto di umiltà. Dobbiamo riconoscere che nessuna delle spiegazioni disponibili per illustrare questa cronicità della bassa crescita appare interamente soddisfacente». Cioè? «Ci sono tre tipi di argomentazioni economiche. Quella secondo cui staremmo ancora pagando lo sforzo compiuto per risanare i bilanci e battere l’ inflazione. Ma non spiega la crisi di un paese, come la Germania, che questo sforzo non lo ha dovuto fare. Poi c’ è la spiegazione statistica, secondo cui sottovaluteremmo l’ economia sommersa e dunque la situazione reale sarebbe migliore di quella ufficiale. Ma vale poco, perché questi elementi di distorsione statistica c’ erano sicuramente anche in passato, e in misura certo maggiore, quando l’ economia europea cresceva ad un ritmo sostenuto. Infine c’ è la spiegazione che punta l’ indice sulle rigidità strutturali. E’ quella che più condivido, ma non basta. Se l’ Europa ha rigidità strutturali oggi, ne aveva certamente di più quindici anni fa quando pure cresceva in fretta. E poi, se è vero che le rigidità strutturali abbassano il potenziale di crescita, è anche vero che l’ Europa non riesce neppure a raggiungerlo, questo suo pur modesto potenziale. Le politiche monetarie e fiscali hanno compiuto negli ultimi decenni progressi notevoli nel governo del ciclo economico. Ma le determinanti fondamentali della crescita rimangono difficili da gestire. E’ un paradosso se si pensa che la scienza economica nasce da un’ opera, “La ricchezza delle nazioni”, che si poneva proprio questo problema». E allora, come si spiega il languore europeo? «Dobbiamo guardare oltre le analisi econometriche. La crescita è un fenomeno le cui determinanti ultime stanno al di fuori degli strumenti della politica economica. E sono convinto che queste determinanti fondamentali molto spesso sono meta-economiche. Per esempio, se l’ America ha registrato dieci anni di crescita ininterrotta non è solo perché ha alleggerito le proprie rigidità strutturali, ma anche perché il paese si trova unito da una visione, un proposito, un senso del proprio destino, dalla consapevolezza di esercitare una leadership mondiale non solo in campo politico, ma anche in campo scientifico, economico, culturale. Sono convinto che questo sia un elemento fondamentale». E l’ Europa, invece? «Purtroppo questo è stato un decennio perduto dal punto di vista dell’ Europa. In questi dieci anni si è realizzato l’ ultimo grande investimento ideale, che è stato quello della moneta unica. E non si sono fatti investimenti nuovi. A Maastricht, nei programmi di Kohl e Mitterrand, bisognava concludere l’ unione economica con la moneta e cominciare l’ unione politica. Si è fatta una cosa e non si è fatta l’ altra. Né lo si è fatto ad Amsterdam, quattro anni dopo, o a Nizza, otto anni dopo. Sono dieci anni ormai che l’ Europa non investe su se stessa, sul senso del proprio valore. Io sono convinto che, se si fosse continuato sullo slancio della moneta unica, non solo il panorama politico, ma anche quello economico sarebbero oggi radicalmente diversi. Ci sarebbe un senso di fiducia. I giovani sarebbero convinti di vivere in una parte del mondo che ha un suo ruolo da svolgere». E se tutto questo fosse legato alla mancanza di un vero senso di identità? «Ma, guardi, io non so bene che cosa sia il senso di identità. E non sono neppure sicuro che sia sempre incardinato sui valori migliori. Certamente la crescita è un fenomeno di società, non è solo un fenomeno economico. E una società deve esistere, deve credere in se stessa, deve avere la sensazione della propria qualità e della propria forza. Ciò che cresce è una società, non solo una economia». Che cosa è mancato all’ Europa per fare questo salto? «Come dicevo, in questi dieci anni c’ è stata quasi una sospensione dell’ investimento politico in maggiore unione. Questi sono progetti a gestazione lunga. A gennaio abbiamo visto l’ apoteosi del passaggio all’ euro. Ma è stato il frutto di un investimento politico fatto 10-15 anni fa. Invece che cosa è successo otto anni fa, cinque-sei anni fa, che possa dare frutti adesso? La risposta, purtroppo, è: quasi niente. Se l’ Europa è stata assente in Jugoslavia, se è stata a rimorchio in tutte le grandi situazioni di crisi, dal Medio Oriente ai Balcani all’ Afghanistan, è perché l’ Europa politica non esiste. Questa è una carenza profonda che sento come cittadino, come italiano, come europeo. Una mancanza di slancio e, in definitiva, di senso di responsabilità di fronte alla storia». Una mancanza, anche, di grandi personalità politiche rispetto ad un passato recente… «Kohl è stato in qualche momento negli anni Novanta l’ unica personalità con responsabilità di potere ad opporsi ad ogni ipotesi di rinvio dell’ euro. Se oggi abbiamo una moneta unica è perché quell’ ultima diga ha tenuto. E forse Kohl ha addirittura perduto il potere per questo suo coraggio. In un uomo come lui questo senso formidabile di responsabilità di fronte alla storia c’ era, e trascendeva anche la tentazione naturale in ogni politico di mantenersi al potere. Il potere per lui era un mezzo, non un fine». E oggi? «Oggi, invece, nella cornice della politica nazionale di tutti i paesi c’ è un malinteso, un equivoco, direi quasi un inganno. Da una parte si finge di credere che i destini della società si possano risolvere a livello nazionale. Ma in realtà gran parte di ciò forma oggetto delle politiche nazionali è al di fuori del loro controllo. Esiste una contraddizione tra il perimetro del governo e il perimetro dei problemi. Il perimetro dei problemi è più ampio del perimetro dei governi. Per cui inevitabilmente nelle contese politiche nazionali ci si scambiano impegni impossibili da mantenere. Credo che questo inganno sia uno degli elementi che infiacchiscono il gioco politico in Europa». Oggi però si presenta la grande occasione della Convenzione. Lei ci crede? «Ci spero. Forse non sappiamo neppure se questo nuovo slancio la Convenzione non lo stia già incubando. La Germania ha nominato il ministro degli Esteri Joschka Fischer come suo rappresentante ai lavori dell’ assemblea. E la Francia ha risposto subito mandando a Bruxelles il suo ministro degli Esteri. Non sono passi senza significato. Ricordiamo che il vicepresidente Fini era entrato nella Convenzione fin dall’ inizio. Tra queste persone deve instaurarsi una stretta collaborazione. Credo che tutte le possibilità siano aperte. E dobbiamo anche considerare che sono in molti ad avvertire oggi in Europa il peso di questi dieci anni di stallo». In che senso? «Le vicende seguite all’ 11 settembre hanno fatto toccare con mano a tutti i leader europei i limiti della loro partecipazione agli affari del mondo. Sono andati tutti a Washington, uno dopo l’ altro, solo per capire che gli americani non hanno bisogno di nessuno. Credo che, ancora di più di quanto possano percepirlo gli osservatori o il largo pubblico, l’ esperienza dell’ ultimo anno e mezzo abbia insegnato molte cose sull’ irrilevanza dell’ Europa a tutti i suoi leader». Quali sono secondo lei gli elementi che ci permetteranno di capire se la Convenzione potrà dare questo nuovo slancio? «Uno e uno solo: il voto a maggioranza. C’ è Unione solo dove c’ è voto a maggioranza. Dove c’ è veto, l’ Unione non esiste. Ci sono mille modi di modulare l’ abbandono del principio di unanimità. E forse ne vanno inventati di nuovi. Ma solo il principio maggioritario implica che si riconosca l’ esistenza di un’ Unione della quale si fa parte anche quando non si è d’ accordo. Solo il voto a maggioranza comporta una vera cessione di sovranità. Sennò quel che resta non è un’ Unione ma, nel migliore dei casi, un’ alleanza». – DAL NOSTRO INVIATO ANDREA BONANNI

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Data
28 novembre 2002
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della sera