Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 9 luglio 2000

Italia-Europa. Una questione di fiducia

Il dibattito sull’Unione


Sarebbe bello che nella riflessione sull’ Italia e l’ Europa, sviluppatasi in modo serio e aperto nelle ultime settimane, fossero presenti anche i giovani, chi oggi non ha ancora trent’ anni. Quest’ articolo è scritto pensando soprattutto a loro. Il dibattito verte sul loro futuro.

1957. A rileggere oggi la discussione che si svolse oltre quarant’ anni fa, colpisce come autorevoli figure dell’ economia e della cultura quasi escludessero che l’ Italia potesse trarre vantaggio da una partecipazione al nascente Mercato Comune.

1978. La definizione del Sistema monetario europeo (proposto da Schmidt e Giscard d’ Estaing) fu affidata ad un comitato di tecnici nel quale l’ Italia era assente. Al momento di decidere se aderire o no al- l’ accordo, alcuni degli uomini e delle istituzioni più eminenti del Paese si pronunciarono contro l’ ingresso della lira nello Sme.

1996. Nel settembre di quattro anni fa, la decisione del governo italiano di porre l’ ingresso nell’ euro a cardine della propria azione fu accolta con incredulità e scetticismo da segmenti importanti della società.

Se vigesse il buon costume di riconsiderare, alla luce del poi, le cose dette e fatte prima, si concluderebbe che in quelle circostanze (e in altre che potrei ricordare) chi voleva l’ Italia pienamente coinvolta in Europa ebbe ragione, chi sconsigliava l’ impegno ebbe torto. A meno di due anni dall’ avvio dell’ euro, infatti, l’ economia cresce bene, le pubbliche finanze sono a posto, si creano molti posti di lavoro.

Le esitazioni o la contrarietà ad un pieno impegno europeo dell’ Italia erano spesso fondate non sull’ ostilità al progetto, bensì sulla sfiducia di molti italiani in se stessi.

Nascevano dalla convinzione che l’ impresa europea fosse superiore alla capacità di carico delle nostre strutture politiche, economiche e sociali. Erano alimentate da profonda disistima verso la classe politica. Dal confronto con i Paesi più forti saremmo stati travolti.

Ora che l’ unificazione europea comincia un nuovo ciclo, vale la pena di soffermarsi su un elemento dei nostri atteggiamenti verso l’ Europa che potremmo chiamare la questione di fiducia sull’ Italia europea. In altri Paesi l’ anti-europeismo si associa alla convinzione di essere abbastanza forti da poter fare a meno dell’ Europa. In Italia si è spesso associato al timore di essere troppo deboli per poter stare in Europa.

Se si guarda all’ esperienza di cinquant’ anni, la sfiducia è palesemente infondata. Innanzi tutto, l’ Italia ha fatto bene all’ Europa. Ha contribuito in modo determinante a che l’ Unione si facesse, e si facesse con le caratteristiche di democrazia e di soprannazionalità che la rendono una realtà del tutto nuova e originale nella storia delle relazioni tra i popoli. Ce l’ ha ricordato molto bene Daniel Cohn-Bendit su questo giornale tre giorni fa. Sembra talvolta che solo noi italiani non lo vediamo. In secondo luogo l’ Europa ha fatto bene all’ Italia. Non c’ è dubbio che dall’ Unione europea siano venuti i maggiori impulsi a progressi e modernizzazioni che nessuno oggi rinnegherebbe. Tra i moltissimi esempi possibili, mi limito ad alcuni che ho conosciuto direttamente negli ultimi vent’ anni: la riforma della legislazione bancaria e finanziaria e la liberalizzazione valutaria, la disciplina del cambio per combattere l’ inflazione, il modello di una legislazione sulla concorrenza, l’ indipendenza della politica monetaria e della Banca d’ Italia, le spinte al risanamento della finanza pubblica. A ogni passo le resistenze furono forti e si basavano su professioni di sfiducia: non ce la facciamo, è un salto nel buio, andiamoci piano. «Profeti di sventura» li chiamava Giovanni XXIII, e nemmeno il suo viso sorridente poteva attenuare la terribilità di quelle tre parole. In che Italia e in che Europa vivrebbero i giovani, se i profeti di sventura fossero stati ascoltati? Com’ è ovvio, antichi nostri difetti e carenze non sono scomparsi per il fatto di stare dentro l’ Europa: difetti di organizzazione, di cultura dello Stato, di buona amministrazione, di senso dell’ interesse collettivo. Paesi dove quei difetti sono minori ricavano dall’ Europa un sovrappiù di valore che, però, è a disposizione di chiunque sappia coglierlo.

Ma saremmo stati, da quegli stessi difetti e carenze, meno penalizzati se ci fossimo tenuti fuori dell’ Europa? È paradossale, ma il legame tra Italia ed Europa ha tratto vantaggio anche da circostanze che erano in sé avverse: un sistema politico senza possibile ricambio di governo e del quale per lungo tempo le forze di opposizione rifiutavano i tre pilastri fondamentali delle libertà «borghesi», dell’ economia di mercato, della collocazione internazionale. L’ Europa era per l’ Italia una salvaguardia di quei pilastri: anche da ciò nascevano la continuità della politica europea e lo straordinario sostegno di cui essa godeva nell’ opinione pubblica. «Anche», ma non «soprattutto»: sopra tutto vi furono l’ opera di una classe politica più lungimirante della stessa classe dirigente, e una cultura popolare impregnata di valori universalisti.

Che il dibattito oggi si faccia più aperto, e che vi emergano diversità e spregiudicatezze, è un avanzamento e una maturazione. E se le libertà democratiche e i principi dell’ economia di mercato sono condivisi da maggioranza e opposizione, è interesse vitale dell’ Italia che anche gli elementi essenziali della sua collocazione internazionale lo siano. In primo luogo, la presenza attiva in Europa, perché le libertà democratiche e i principi del mercato là hanno, ancor oggi, la principale salvaguardia.

Fra i molti crinali che percorrono la storia della partecipazione italiana all’ unificazione europea, quello che distingue i fiduciosi dagli sfiduciati risale molto indietro nel tempo. Si radica nei secoli del dominio straniero, nel ritardo nella nascita di uno Stato unitario e di una struttura industriale, nell’ emarginazione dalla grande storia europea dopo il Rinascimento, nell’ umiliazione della guerra perduta. Forse, soprattutto nel Mezzogiorno, nasce anche da quell’ enorme depauperamento di talenti che fu l’ emigrazione di massa; emigrarono, infatti, le persone meno rassegnate, le più intraprendenti, quelle che sentivano in sé le energie per riuscire nella vita.

Ma nella classe dirigente la sfiducia era anche intrisa di un particolare pigmento che nella società italiana, particolarmente fra gli intellettuali, è stato considerato, per gran parte del dopoguerra e spesso ancor oggi, ingrediente immancabile dell’ intelligenza: il pessimismo. Con ciò intendo un far prevalere, tanto nell’ analisi quanto nelle decisioni, la valutazione dei rischi rispetto a quella delle opportunità. Di qui un diffuso criterio per giudicare: se l’ esito è cattivo il pessimista ha avuto ragione, se l’ esito è buono l’ ottimista è stato fortunato. «Gli assenti hanno sempre ragione», osserva amaramente Paolo Sylos Labini. In realtà, cinquant’ anni di rapporti tra Italia e unificazione europea insegnano che proprio l’ intelligenza, se così chiamiamo una corretta analisi delle situazioni e delle prospettive, indicava qual era l’ interesse dell’ Italia, quali le possibilità di riuscita, quale il costo della rinuncia e dell’ estraniazione. E l’ insegnamento può servire per il futuro.

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Data
9 luglio 2000
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera