Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 27 agosto 1998

Il ponte di Saint Louis

Dal gennaio prossimo, cioe’ da quando l’euro sostituira’ le monete nazionali, solo la politica del lavoro rimarra’, tra le leve della politica economica, veramente nazionale. La moneta sara’ infatti governata da un’istituzione comune e il patto di stabilita’ sottoporra’ il bilancio a un vincolo europeo.

Che in un Paese la disoccupazione cali o si faccia ancor piu’ grave dipendera’, in questo nuovo ordinamento, soprattutto (sull’avverbio tornero’) dalle scelte e dai comportamenti di imprese, governo, sindacati, Parlamento, autorita’ locali.

Quando la disoccupazione raggiunge, e mantiene per anni, i livelli che conosciamo nel Mezzogiorno e in altre regioni d’Europa, tutelare il lavoro significa innanzitutto curarsi di chi non ha lavoro. Lo si puo’ fare rendendo conveniente l’investimento, incoraggiando la nascita di nuove imprese e la crescita delle gia’ esistenti, liberando le aziende sane dalla concorrenza sleale di quelle sussidiate, permettendo ai giovani di sperimentarsi.

Se invece si opera per aumentare le garanzie e i privilegi di chi ha gia’ lavoro, si ottiene l’effetto sicuro di diminuire l’occupazione nel proprio Paese e di accrescerla in qualche Paese concorrente. A St. Louis il ponte sul Missouri della ferrovia transamericana non fu mai costruito perche’ le condizioni del locale mercato del lavoro suggerirono di passare per Chicago, di cui cosi’ inizio’ l’ascesa. St. Louis decadde.

Non deve sorprendere la difficolta’ intellettuale, anche morale, di accettare questa logica: in fondo, la questione sociale alla quale si sono formate generazioni di dirigenti politici e sindacali era la sofferenza del lavoratore, non quella del disoccupato.

Un siffatto ordinamento della politica economica fa sorgere varie domande. Vediamone alcune e cerchiamone la risposta.

Prima domanda: e’ un ordinamento legittimo? Sembrano dire di no le, invero poche, voci che si levano contro il “governo dei tecnocrati stranieri”. Mosse da passione, ora nazionale ora sociale, quelle voci sembrano promettere che se l’Italia potesse “fare da se”, magari anche frenando l’importazione, ci sarebbe lavoro per tutti. Quelle due passioni, spesso confortate dall’illusione protezionista, si sono piu’ volte intrecciate nel corso del secolo e piu’ volte hanno trasmodato, accompagnandone i momenti piu’ oscuri.

L’ordinamento che abbiamo illustrato ha, al contrario, piena legittimita’, la stessa legittimita’, per fare due esempi, del Codice civile e dello Statuto dei lavoratori. La sua componente sovrannazionale e’ prevista dall’articolo 11 della Costituzione. Ogni sua norma e’ stata ratificata e trasposta nella legislazione interna con regolari procedure parlamentari. Prima della ratifica, ogni norma e’ stata definita nei suoi contenuti attraverso ampi dibattiti a cui l’Italia ha pienamente partecipato, spesso esercitando influenza determinante. Un referendum e innumerevoli sondaggi hanno mostrato a tutti il larghissimo consenso che accompagna la partecipazione degli italiani all’Europa.

Seconda domanda: e’ un ordinamento efficace? Se e’ vero che solo la politica del lavoro e’ rimasta interamente (o quasi) nazionale, dobbiamo concludere che sono diminuite le armi per combattere la disoccupazione? Ritengo di no, per due motivi. In primo luogo, perche’ la collocazione europea non toglie efficacia a quelle armi; piuttosto le mette al riparo da usi impropri quali la svalutazione, la manipolazione del cambio, la finanza facile.

In secondo luogo, perche’ di quelle due politiche una, il bilancio, e’ divenuta europea solo in parte: a condizione che il disavanzo si tenga al di sotto del 3 per cento del prodotto nazionale e il debito non ne superi il 60 (o scenda verso 60 quando lo supera), ogni aspetto delle pubbliche spese e delle tasse (distribuzione, finalita’, contenuti, struttura, volume) e’ liberamente deciso dai governi e dai Parlamenti di ciascun Paese. Ed e’ bene che sia cosi’: dal punto di vista non solo economico, ma anche politico.

Si noti che qui si parla di ordinamento della politica economica, non del suo orientamento in una particolare circostanza: si guarda cioe’ a chi fa la politica economica, non a come egli la fa. E che la moneta e il bilancio si orientino in senso piu’ o meno restrittivo non e’ una meccanica conseguenza dell’ordinamento. Ne’ si puo’ dimenticare che l’uso da noi fatto, nell’arco di numerosi decenni, delle leve che ora passeranno in mani europee (mani al plurale, si badi: tra esse c’e’ quella dell’Italia) non e’ stato dei piu’ felici.

Terza domanda: se e’ vero che la politica del lavoro e’ nazionale, e’ vero anche che la creazione di posti di lavoro dipende interamente da essa? Con l’avverbio “soprattutto” usato piu’ sopra intendevo rispondere di no. L’attivita’ economica e l’occupazione dipendono anche dalla moneta e dal bilancio. Si rovescia allora, per questa ragione, l’intero discorso? Ancora una volta ritengo di no; ancora una volta per due motivi.

In primo luogo perche’, nelle circostanze presenti dell’economia europea, l’alto numero dei disoccupati e’ determinato in misura preponderante da fattori quali collocamento, formazione, retribuzione, mansioni, mobilita’, orario, magistratura del lavoro. Concorda con questa diagnosi la grandissima maggioranza dei conoscitori dei problemi del lavoro, in Europa e fuori; anche se poi discorda sulla “misura preponderante”. Ne’ coloro che auspicano larghezza di bilancio e di moneta affermano che la larghezza farebbe il miracolo. Tutti vedono, del resto, che con bilanci e moneta uniformi, alcuni Paesi europei sono vicini alla piena occupazione, altri lontanissimi.

In secondo luogo perche’ la collocazione europea non impedisce affatto che quelle leve siano azionate guardando all’occupazione. Al contrario, lo stesso Trattato di Maastricht stabilisce che il Sistema europeo di banche centrali, “fatto salvo l’obiettivo della stabilita’ dei prezzi, sostiene le politiche economiche generali della Comunita”. Si deve concludere ancora una volta che il futuro dell’occupazione in Italia e’ soprattutto nelle mani di noi italiani, nel bene e nel male.

Vedi l’articolo in pdf

Stampa Stampa
Data
27 agosto 1998
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera