Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 14 ottobre 2004

Il federalismo su due fronti

Lo Stato nazionale tra le Regioni e l’Europa


I venti del federalismo scuotono lo Stato nazionale contemporaneamente da sotto e da sopra: le Regioni e l’ Europa vogliono entrambe sottrargli qualche funzione. Politici, commentatori e cittadini comuni reagiscono in modo apparentemente contraddittorio. Per molti il super-Stato europeo nascerebbe già con un modesto rafforzamento di Bruxelles, mentre l’ unità nazionale morirebbe anche per una piccola devoluzione alle Regioni.

Pur soffiando in direzioni opposte, quei venti appartengono a un unico processo storico. Non soffiano solo in Italia, sono ben forti in Gran Bretagna, Francia, Spagna, unite e accentrate da molti più secoli dell’ Italia. Autonomie maggiori di quelle che si discutono da noi Scozia, Corsica, Galizia le hanno già ottenute, o le rivendicano. I libri di testo raccontano la storia della penisola iberica in lingue e modi diversi per gli scolari di Catalogna, Castiglia, Paesi Baschi.

Le opposte reazioni si spiegano, a mio giudizio, con la forza di un mito – il mito romantico dello Stato nazionale – e la sua confisca da parte dell’ accentramento giacobino. Che una realtà eminentemente culturale, quale la nazione, debba essere fondamento e parametro dell’ ordine politico, e che questo debba costituire un blocco monolitico sono idee recenti. Nel breve volgere di qualche generazione esse hanno rivelato lati nefasti. In Europa hanno prodotto vere catastrofi già pochi decenni dopo il loro apogeo, fino a ieri nei Balcani. In Africa, Medio Oriente e altre parti del mondo le catastrofi sono in corso.

Sono anche idee in contraddizione con la realtà umana e sociale: al pari del Dna, la cultura non è mai identica tra due persone; nessuna cultura ha confini netti e impermeabili con altre; ogni uomo appartiene a comunità multiple. Il riminese è anche romagnolo, italiano, europeo e cosmopolita: «Io, cui il mondo è patria come l’ acqua ai pesci», dice Dante.

Perché, allora, questa idea è divenuta rapidamente un mito, quasi un’ idolatria? Perché si dimostra tanto tenace? È perché essa ha occupato un vuoto creatosi nella mente e nel sentimento delle persone. La caduta successiva della maestà dell’ impero, del potere politico della Chiesa, dell’ investitura divina del sovrano ha lasciato senza chiara identificazione il fondamento dello Stato. E a nuovo fondamento è assurto l’ impasto tra principio democratico e neo tribalismo etnico-culturale. Perfino nell’ empirica e razionale Inghilterra ho visto mature signore agitare davanti al Consiglio europeo cartelli con la scritta «le nazioni sono state create da Dio e solo Dio le può abolire!».

Col suo pretendersi esclusivo detentore del potere politico, lo Stato nazionale è come un gigante che si sente morire se gli si taglia anche solo un’ unghia. Esso non può né deve essere soppresso; resterà per molto tempo il punto di massima concentrazione delle funzioni pubbliche. Il doppio suo vizio che va corretto è l’ assolutismo, il suo non tollerare alcun potere sotto o sopra di sé.

Uscire dal mito e correggerne la creatura deforme è faticoso. È una vera catarsi mentale accontentarsi che l’ ordine politico serva solamente (ma è un «solamente» enorme) ad assicurare la pace nel condominio, nel quartiere, nella città, tra le città. E che cos’ è la pace se non una rinuncia concordata alla violenza quale mezzo per comporre disaccordi e controversie? La chiamata alle armi può essere necessaria, ma la rinuncia ad esse è l’ essenza stessa del contratto sociale.

I venti del federalismo non scuotono solo un ordinamento politico, scuotono l’ inerzia con cui ancora ci culliamo in un giovane mito, pur avendone patito i tragici effetti.

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Data
14 ottobre 2004
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera