Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 2 agosto 1998

I filantropi dell’occupazione

Il governo dell’economia italiana vive una vigilia e un indomani. Indomani dell’ammissione all’euro, vigilia dell’euro e del patto di stabilita’.

L’indomani, che dura ormai da tre mesi, e’ stato segnato da stanchezza e scoramento: vinta la battaglia dell’inflazione e del bilancio, l’esercito ha ben visto che il vero nemico e’ la disoccupazione, ma sembra aver dimenticato quel fondamentale capitolo dei manuali militari che si intitola “Sfruttamento del successo”. Cosi’ accadde a Capua al vittorioso esercito cartaginese.

Ma queste stesse settimane sono anche una vigilia; maturano scelte decisive per l’occupazione, per il futuro dei giovani, per il Mezzogiorno. Le decisioni saranno giuste se sapranno essere coerenti con il particolare ordinamento in cui, tra centocinquanta giorni, si svolgera’ la politica economica. Cerchiamo di spiegare in modo semplice come sara’ quell’ordinamento.

E’ comune affermazione che la politica economica ha per obiettivo in ogni Paese un duraturo benessere per l’intera popolazione; donde il tema dell’occupazione. Sembra una proposizione semplice, ma ogni sua parola nasconde difficolta’ e complicazioni. “Paese” puo’ significare Italia, Europa, Mezzogiorno, o altro ancora. “Duraturo” significa che quel benessere non dovrebbe avvenire a spese delle generazioni future. “Politica economica” e’ un singolare che cela una pluralita’ di attori, non sempre coerenti: governo, legislativo, parti sociali, poteri locali.

E’ comune anche l’individuazione di tre strumenti della politica economica: bilancio, moneta, lavoro. Una politica economica produce duraturo benessere solo se i suoi diversi strumenti e i suoi diversi soggetti operano in modo coerente con l’obiettivo comune. Gli strumenti principali della politica economica sono distribuiti tra soggetti in senso orizzontale: alla Banca centrale la moneta; a governo e Parlamento il Bilancio; alle parti sociali i contratti di lavoro. Ma sono anche distribuiti in senso verticale, tra diversi livelli di governo: poteri locali, nazionali, europei. Ebbene, l’articolazione verticale della politica economica, che gia’ da alcuni anni si e’ mossa lungo entrambi gli assi, tra poche settimane compira’ una decisiva trasformazione in due delle sue tre componenti.

Per effetto dell’euro, la politica monetaria, che era nazionale e dipendente dal governo fino a meno di dieci anni fa, completera’ l’uscita da entrambe le sue antiche sfere di influenza e si collochera’ definitivamente in una istituzione indipendente ed europea.

Per effetto del patto di stabilita’, la politica di bilancio, che era anch’essa nazionale e principalmente affidata al Parlamento (il quale aveva, soprattutto in Italia, ampio potere di fissare la spesa e il disavanzo), si svolge ora entro limiti fissati dall’Unione europea per il disavanzo e per il debito pubblico. Il potere di bilancio, va aggiunto, si e’ anche spostato dal Parlamento all’esecutivo e, sia pur marginalmente, dal governo centrale ai governi locali.

La politica del lavoro, invece, rimane quasi interamente nazionale. In tale ambito essa e’ affidata alle parti sociali, cui lo Stato aveva delegato il potere legislativo senza veramente disciplinarne le procedure. Vi sono stati, e’ vero, alcuni movimenti sia orizzontali, sia verticali. A partire dagli accordi del 1992 – 93, c’e’ stato uno spostamento verso il governo e, soprattutto per lo stimolo di Rifondazione comunista, verso il Parlamento (legge sulle 35 ore). E negli anni Novanta anche la politica del lavoro ha assunto un profilo europeo: il trattato dell’Unione ha fissato in una carta sociale diritti e garanzie minimi per i lavoratori, mentre la Commissione di Bruxelles ora impedisce (si accinge a farlo con l’Italia) forme di sostegno dell’occupazione che violino le regole della concorrenza.

Ma sono spostamenti ancora marginali. Per l’Italia e per gli altri Paesi europei la condizione del mercato del lavoro e dell’occupazione e’ ancora oggi prevalentemente affidata a soggetti nazionali: imprese, lavoratori, loro associazioni, governo, Parlamento.

Dipende percio’ essenzialmente dalla qualita’, dalla lungimiranza e dalla fantasia delle scelte compiute da soggetti nazionali che i posti di lavoro aumentino o diminuiscano, che la disoccupazione si concentri in poche aree o che si distribuisca in modo piu’ sopportabile. Sono scelte che riguardano i livelli salariali e i carichi contributivi, la mobilita’ territoriale e la definizione delle mansioni, la formazione professionale e le progressioni di carriera, il collocamento e i licenziamenti, la risoluzione delle controversie di lavoro e la possibilita’ di premiare i migliori, l’orario di lavoro e l’efficenza amministrativa.

Quali conseguenze determina, per il complesso delle azioni e delle scelte che vanno sotto il nome di politica del lavoro, il fatto che le altre due politiche – quella monetaria e quella di bilancio -, siano condotte o fortemente vincolate dall’Unione europea? Le conseguenze si possono cosi’ riassumere.

Una politica del lavoro giusta (in ogni senso) riuscira’ a creare posti di lavoro secondo la misura del mercato europeo, non soltanto di quello italiano che ne rappresenta una frazione relativamente modesta. Per chi sa prevalere nella competizione la vincita e’ divenuta piu’ alta: attirera’ verso il proprio territorio investimenti, lavorazioni, benessere. Secondo la stessa logica, pero’, una politica errata (ma anche ingiusta, perche’ ostile ai meno fortunati) pur se ispirata a senso di solidarieta’ sociale, peggiorera’ lo stato dell’occupazione invece di migliorarlo. Politiche che considerano lavoratore chi riceve un sussidio senza produrre, che impongono all’impresa vincoli che le sue concorrenti straniere non hanno, che cercano di ridistribuire il lavoro accrescendone il costo complessivo, che ostacolano l’impiego precario o tengono alto il primo salario, sono si’ sostegni all’occupazione, ma a quella dei Paesi nostri concorrenti, non a quella italiana. Se i livelli della disoccupazione sono molto diversi in Europa e’ perche’ la politica del lavoro varia da Paese a Paese.

Un esempio per tutti. L’abolizione dei differenziali salariali tra Centro – Nord e Mezzogiorno, decisa prematuramente circa trent’anni fa, ha causato, nelle regioni del Sud, disoccupazione, ritardo di sviluppo e degrado civile di cui ancora soffriamo: le buone intenzioni che la ispirarono non valsero a impedirne effetti nefasti.

Al pari dell’architettura e della biologia, anche la vita economica e’ governata da leggi: puo’ dispiacere, ma solo rispettando quelle leggi un duraturo benessere e’ raggiungibile. Si usa dire che l’architetto copre i suoi errori con una siepe, mentre il medico li seppellisce. Per correggere gli errori dei filantropi dell’occupazione ci sono state, per anni, la svalutazione del cambio e la finanza facile. Ora non piu’.

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Data
2 agosto 1998
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera