Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 21 luglio 2004

Classi dirigenti per l’Europa

Dalle élite una spinta all’unione pubblica


Ho argomentato giorni fa come i fatti europei siano oggi più contraddittori e meno negativi di quanto spesso si affermi (la retorica antieuropea non è meno banale di quella proeuropea) e come un’ unione politica sia l’ unico strumento a disposizione degli europei (siano essi francesi, o tedeschi, o spagnoli) per influire sulle grandi questioni che oggi agitano il mondo e minacciano il loro futuro. Ma questo «unico strumento» è davvero «a disposizione»? Secondo molti non lo è. L’ unione, dicono, sarebbe una cosa ottima, ma è impossibile. Se in oltre cinquant’ anni non si è compiuta è perché gli europei non la vogliono, non la sentono, non esistono. Chi continua a provarci è un illuso che spreca energie.

La critica punta il dito, secondo i casi, sui politici o sulla gente (una volta si diceva «il popolo»). Quando accusa i politici, rimprovera loro di abbarbicarsi a un potere nazionale divenuto impotente, di concepire Strasburgo e Bruxelles solo come rampe di lancio o lussuose pensioni di una carriera che si svolge altrove. Quando li assolve, accusa la gente di assenteismo e indifferenza. Come possono, i politici, unire l’ Europa se al popolo essa non interessa? O, al contrario, come fa il popolo europeo a ottenere l’ unione se i politici sono intenti solo alla politica nazionale?

La politica è sempre interazione tra governati e governanti, perfino nei regimi non democratici. Alla fine l’ Europa si unirà solo se gli europei ne avranno la capacità e la volontà. Anche un governante molto forte (si pensi a Cavour, Bismarck, o Roosevelt) trasforma il corso della storia solo cogliendo e guidando a risultati concreti potenzialità che già esistono nel profondo della società, seppure confuse e spesso in conflitto con altre.

Tutto ciò è vero. E tuttavia, la diagnosi resta incompleta se non si tiene conto di un terzo soggetto: la classe dirigente, vale a dire il complesso delle persone – insegnanti, dirigenti d’ impresa, giornalisti, avvocati e magistrati, banchieri, sindacalisti o altro ancora – le cui azioni e decisioni, quale che ne sia il campo specifico, oltrepassano il confine del particolare. La classe dirigente non può né deve essere unita su tutto, ma deve essere accomunata da un senso di responsabilità generale. Essa è il vero snodo tra governanti e popolo.

Fu una pressione della classe dirigente europea a premere sui governi, verso la metà degli anni Ottanta, perché il mercato unico si facesse davvero attraverso una legislazione europea uniforme applicata con rigore, corredata da una seria politica della concorrenza. Fu la classe dirigente tedesca, negli anni Novanta, ad accettare l’ euro, anche se ciò significava rinunciare al più forte potere internazionale che la Germania del dopoguerra avesse saputo costruire. Sono la classe dirigente francese e quella britannica a non riuscire a liberarsi dall’ illusione di un potere nazionale sovrano, che i fatti quotidianamente smentiscono.

Non si tratta di popolo, né di démos, né di Paese profondo, non di decine di milioni di elettori; si tratta delle poche migliaia di persone che in ogni Paese hanno un peso nella società e una corresponsabilità per l’ andamento generale delle cose. Neppure si tratta di un ceto europeo anziché nazionale; si tratta di come pensano e vogliono l’ Europa (e il loro stesso Paese) le attuali classi dirigenti nazionali.

Che l’ unione sia possibile, oltre che necessaria per rimanere attori della storia, lo dimostra l’ importanza del cammino già percorso. Che l’ unione avvenga dipende in larga misura, forse soprattutto, dalla sua classe dirigente.

(4 – Fine. I precedenti articoli sono usciti il 22 e il 30 giugno e il 9 luglio)

Vedi l’articolo in pdf

Stampa Stampa
Data
21 luglio 2004
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera