Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 27 febbraio 2005

L’effetto Wimbledon

Il patriottismo economico oggi

Tra le cose di cui gli inglesi vanno fieri vi è il loro torneo di tennis. Nessun grande giocatore l’ha mai snobbato; il lungo elenco di chi l’ha vinto coincide con quello dei grandi dell’intera era del tennis. Ma che cos’ha Wimbledon di veramente inglese? Solo il luogo, e una parte dell’esiguo pubblico fisicamente presente, mentre centinaia di milioni lo seguono alla televisione da tutto il pianeta. Il Club di Wimbledon punta a organizzare il miglior torneo del mondo e tutto volge a questo fine: eccellenza di giocatori, arbitri, prato, raccattapalle, comportamento del pubblico.

L’economia segna a tal punto il nostro tempo da imporre il suo modello tanto alla più innocente quanto alla più cruenta delle contese umane che muovono la passione patriottica: lo sport e la guerra. Lo sport, da divertimento è divenuto business; la politica estera passata dalla conquista di territori a quella di mercati. L’economia, non la guerra, sembra essere divenuta il paradigma delle relazioni internazionali.

L’economia invade e trasforma i campi della passione patriottica; ma questa, inversamente, non si ritira dal terreno degli interessi economici. Proprio il nesso tra interesse nazionale e interesse economico sottende molti temi del dibattito odierno sull’economia: colbertismo e italianità delle banche, futuro di Fiat e di Alitalia, investimenti italiani in Romania o in Asia ed esteri in Italia.

Dobbiamo allora chiederci: il patriottismo economico ha ancora una funzione utile? Conserva davvero una ragione d’essere nonostante il rapido procedere di globalizzazione, accordi internazionali, economia di mercato? Personalmente, vedo due motivi per rispondere di sì. Sì, in primo luogo, perché la vita economica è, e continua ad essere, animata dal senso di appartenenza a una medesima comunità, dal desiderio del suo successo, dallo spirito di solidarietà e di collaborazione; moventi tanto forti quanto il profitto aziendale e il tornaconto individuale. Sì, inoltre, perché il governo è rimasto principalmente nazionale; è perciò nello stesso tempo agente della motivazione patriottica e della politica economica.

Ma se è vero che globalizzazione e mercato non isteriliscono il patriottismo economico, è vero anche che la trasformazione del contesto è tanto profonda da richiedere un nuovo manuale; il vecchio, infatti, contiene ricette di sconfitta, non di vittoria, così come nel 1939 quasi tutti i manuali militari dei pur patriottici stati maggiori contenevano ricette di sconfitta.

Il primo e più importante aspetto della trasformazione avvenuta è il passaggio dall’autosufficienza all’interdipendenza che è come dire il passaggio da un’economia di guerra a una di pace. Quand’ero alle elementari s’insegnava che il dramma dell’Italia era la mancanza di materie prime; dominava la cultura dell’autosufficienza, a sua volta dominata dal pericolo della guerra. L’equivalente odierno è il «campione nazionale». Ma già poco dopo la scoperta di Cristoforo Colombo si disse: «L’oro americano ha ingrassato la Spagna ma fatto ricche le Fiandre».

Certo i britannici esulterebbero se a Wimbledon vincesse di nuovo un inglese, dopo decenni; ed esulterebbero i produttori britannici di racchette (se ve ne fossero) se tutti i partecipanti al torneo usassero solo racchette made in England. Ma qualora il Club o il governo britannico manovrassero a tali fini premi d’ingaggio ai giocatori, scelta degli arbitri, sorteggio dei turni, tifo del pubblico, il torneo scomparirebbe dal calendario dei veri campioni, dai programmi televisivi e dai bilanci pubblicitari. Una perdita netta per la Gran Bretagna. Così è accaduto per altri tornei, anche italiani.

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Data
27 febbraio 2005
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera