Tipo: Articoli Fonte: Corriere della Sera 28 settembre 2003

La lunga rotta europea dell’Italia resisterà a ogni momentanea deriva

La nostra convinta partecipazione al progetto dell’Unione è fondata su un’antica esperienza. Conosciamo bene la decadenza secolare causata dalla divisione in piccoli Stati rissosi.
Le ragioni profonde di questo legame non sono venute meno. Il nostro Paese ha ancora gravi ritardi nella sua strttura economica e il sistema bipolare non è del tutto a regime.

Dobbiamo chiederci: è possibile che, negli anni a venire, continui la politica europea seguita dall’ Italia nel dopoguerra? Ed è augurabile?

È possibile e augurabile. Dalla fine del ‘ 400, il periodo storico nel quale l’ Italia ha più influito sul Continente e più beneficiato come nazione è proprio la seconda metà del ‘ 900; e ciò si deve molto alla nostra politica europea. La classe dirigente, e segnatamente il mondo della cultura, sembra averne ancora limitata consapevolezza, con l’ eccezione di quella parte del ceto politico che di tale vicenda fu artefice o testimone. Un Paese con più forti ambizioni e senso dello Stato considererebbe tale politica come patrimonio nazionale da non disperdere. Per fare bene in Europa ci servono le stesse cose di cui abbiamo più radicato bisogno anche in patria: senso dello Stato, strutture sociali, economiche e amministrative solide, mercato, democrazia. Ancora oggi l’ Europa può agire da promotore e catalizzatore, anche se le condizioni perché quest’ effetto si produca si sono fatte più difficili.

Due premesse. In primo luogo, sulla questione europea vi sono divisioni che passano all’ interno delle formazioni partitiche: non solo da noi, ma anche in Francia, Olanda e via dicendo ci sono fautori e avversari dell’ Unione dentro il partito socialista, il liberale, il conservatore. In secondo luogo, in ogni sistema ben funzionante i partiti sono concordi su alcune questioni e su altre si combattono; per esempio, maggioranza e opposizione condividono il metodo elettorale e discordano sulla questione sociale o su quella scolastica.

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L’ attiva e convinta partecipazione dell’ Italia al progetto europeo ha ragioni storiche e culturali fondate in un’ antica esperienza, divenuta sentire del popolo. Gli italiani conoscono bene la decadenza e l’ avvilimento che la Penisola ha sofferto lungo i secoli, a causa della propria divisione in piccoli Stati rissosi. Più chiaramente degli spagnoli o dei francesi (da molti secoli raccolti in Stati unitari e potenti), essi avvertono che la Penisola europea rischia di ripetere l’ esperienza italiana e di uscire così dal proscenio del mondo. L’ universalismo, di cui la nostra cultura popolare è impregnata (forse ancor più di quella cosiddetta alta), ci rende pronti all’ idea che il governo sia non solo nel capoluogo e a Roma, ma in parte anche a Bruxelles. D’ altra parte, gl’ italiani sono usi a conciliare un fortissimo senso del campanile con l’ adesione all’ unione nazionale; anzi, questa si nutre anche dell’ asprezza dei particolarismi. Qui stanno le vere ragioni di quella sintonia tra ciclo storico italiano e ciclo storico europeo, che abbiamo descritto in un precedente articolo.

A queste ragioni antiche vanno aggiunti due fattori. Il primo era la diffusa consapevolezza di un ritardo: arretratezza economica, guerra perduta, democrazia fragile, carenza di Stato. Il secondo fattore, in parte connesso al primo, era il bisogno di legittimazione reciproca delle forze politiche: i due partiti estremi (Partito comunista italiano e Movimento sociale italiano) proprio a Bruxelles e a Strasburgo avviarono, in tempi successivi, la loro conversione alla democrazia e al mercato. Ebbene, proprio mentre avveniva un cambiamento di maggioranza, è parso che la spinta dei due fattori si attenuasse o si esaurisse: il fattore ritardo, con la riuscita rincorsa dell’ euro; il fattore legittimazione, con l’ avvento del bipolarismo. Uscita dal paradosso di Paese debole in casa e forte in Europa, l’ Italia è sembrata entrare in un paradosso nuovo: più europea e meno bisognosa di Europa. In politica, raggiunta la democrazia matura, ha rischiato di dividersi gravemente sulla questione europea. In economia, raggiunta la stabilità (mercato unico, euro), è apparsa priva del dinamismo con cui aveva recuperato il secolare ritardo.

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È affiorata allora la tentazione di cambiare metodo. Come modello nuovo di Europa unita, si è proposto null’ altro che la vecchia, vecchissima, cooperazione tra Stati-nazione indisponibili a ogni cessione di potere all’ Unione. Questo modello, che prima del 1914 si chiamava «concerto delle nazioni», è solo un’ unione virtuale in cui molta retorica cerca di nascondere l’ incapacità di decidere e di agire insieme sulle questioni importanti. Non è più stato chiaro, negli anni recenti, se la linea europea dell’ Italia fosse diversa per i due schieramenti (come, in certa misura, in Gran Bretagna) o restasse immutata al cambiare della maggioranza (come in Germania, Francia, Belgio). Bipolare in un caso, bipartisan nell’ altro.

Nello sfondo, vi era il grande solco scavatosi negli anni Novanta tra maggioranza e opposizione, per effetto del sistema maggioritario. Un solco simile a quello apertosi nel 1947-48, ma con la grande differenza che allora gli italiani avevano davvero dovuto scegliere tra democrazia liberale e dittatura del proletariato, tra mercato e collettivismo, tra Occidente e Unione Sovietica; mentre oggi una medesima idea di società era rimasta vittoriosa sul campo e aveva guadagnato il consenso dei più. Nell’ infanzia del bipolarismo in cui ancora siamo, la questione europea ha rischiato di essere asservita al bisogno della lotta politica di riempire di contenuti programmatici differenziati i due bacini idrologici creati dallo spartiacque tra governo e opposizione.

Invece, vi erano tutte le condizioni perché la linea europeista continuasse, proprio ora che il potere era tornato nelle mani di chi rivendicava l’ eredità di De Gasperi ed Einaudi e amava riecheggiare i temi e i toni del 1947-48. Le ragioni profonde dell’ europeismo italiano non sono certo venute meno. Gli stessi fattori del ritardo e della legittimazione sono tutt’ altro che scomparsi: l’ Italia ha ancora gravi arretratezze nella sua struttura economica e amministrativa, e la legittimazione delle forze politiche manca addirittura entro le sue stesse frontiere. Il sistema politico bipolare non è ancora del tutto entrato a regime.

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Ma la politica europea dev’ essere bipartisan o bipolare? A mio giudizio, essa non dev’ essere né l’ una né l’ altra cosa soltanto. Essa è infatti attività costituente, sulla quale è bene essere uniti, ma anche attività ordinaria, sulla quale è normale essere divisi.

I governi (nel Consiglio dei ministri dell’ Unione) e gli europarlamentari (nel Parlamento) si occupano sia di materie costituzionali sia di materie ordinarie. Discutono se l’ Europa debba darsi una politica estera e di difesa comune, e nello stesso tempo quale debba essere la posizione sull’ Iraq o sui Balcani; se debba avere uno o due presidenti, e nello stesso tempo chi debba essere nominato; se l’ Unione debba accrescere le sue risorse, e nello stesso tempo come tali risorse vadano spese.

A misura che l’ Unione si completa e si rafforza, la politica europea vede restringersi il campo costituzionale e allargarsi quello ordinario; dunque si estende gradualmente l’ area in cui è normale che si contrappongano posizioni e idee diverse sul da farsi. Non solo. La geografia politica europea è ulteriormente complicata dal fatto che ancora sussiste un ampio spazio in cui quelli che si affrontano sono interessi nazionali.

Tre sono dunque gli assi lungo i quali si articolano le differenze politiche in Europa: un asse nazionale (francesi, belgi, ecc.), uno istituzionale (maggiore o minore integrazione) e uno ordinario (popolari, liberali, socialisti). È presumibile che questo sistema a tre coordinate sia destinato a restare in vita ancora per lungo tempo.

Quando l’ Unione avrà raggiunto la sua piena maturità, cercare una posizione unica degli europarlamentari francesi (dai lepenisti ai trotzkisti) in materia di aiuti allo sviluppo o di inquinamento parrà cosa altrettanto strampalata che, per l’ Italia, una posizione comune a tutti i deputati umbri o pugliesi (da Alleanza nazionale a Rifondazione) sulla riforma della Rai o sulla legge finanziaria.

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Nell’ ambiente prevalentemente europeo in cui vivo e opero, mi sento chiedere spesso se l’ Italia abbia oggi davvero abbandonato il sostegno a un’ Unione più stretta, che per molti decenni personalità e gruppi anche molto diversi tra loro dettero in modo convinto ed efficace. Chi me lo chiede è amico del nostro Paese, altrimenti non perderebbe tempo a interrogare. Ed è spesso persona con cui la franchezza dei rapporti impedisce di dare una risposta artefatta.

Rispondo così: la nostra democrazia ha appena compiuto il preziosissimo passaggio alla possibilità e alla concreta attuazione dell’ alternanza di governo. Non deve sorprendere che un bipolarismo in rodaggio rimetta tutto in discussione, compresa la linea europea. È avvenuto anche altrove, se solo ricordiamo le ripetute crisi monetarie in cui Mitterrand, ostile al Sistema monetario europeo, precipitò la Francia prima di diventare padre dell’ euro. Le intemperanze contro l’ Europa unita, del resto, vengono da poche figure della scena nazionale, sono scompostezze che vanno forse rarefacendosi.

D’ altra parte, aggiungo, la linea dell’ Italia sulle questioni europee ha radici così lunghe nella storia e nella cultura del Paese, corrisponde tanto al nostro interesse più profondo, ha dato all’ Italia tali vantaggi economici e istituzionali che sarebbe ingenuo, per un osservatore straniero, confondere qualche momentanea deriva con un cambiamento di rotta.

(4-fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 19, il 21 e il 26 settembre)

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Data
28 settembre 2003
Tipo
Articoli
Fonte
Corriere della Sera