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La maschera di Pechino

15 agosto 2005 @ 10:34 In 1 - La Globalizzazione, Mondo

Il capitalismo cinese e i nostri Diliberto.

«Ai mercati vorrei dire che il Paese con la crescita economica maggiore è la Cina comunista». Forse anche altri hanno colto questa frase di Oliviero Diliberto in una recente intervista (Corriere del 10 agosto). Io ne sono rimasto affascinato: sedici parole sistemano in un colpo solo ardue questioni che ci occupano da un secolo e più, questioni come crescita, comunismo, mercato, rapporto tra regime economico e regime politico, emergere della potenza cinese, traendone un fresco e singolarissimo pronunciamento.

Riassumiamo l’ antefatto. L’ agenzia internazionale Standard & Poor’ s abbassa il voto all’ Italia, retrocedendola a Paese dove investire è divenuto più rischioso; motiva il suo passo osservando che manca un chiaro piano di risanamento non solo del governo ma della stessa opposizione. Da un partito moderato di questa (Corriere del 9 agosto) si osserva che può aver pesato la presenza nell’ Unione di due partiti che hanno ancora la parola comunista nel loro nome. Con prontezza di spirito interviene allora Diliberto, la cui frase, in chiaro, vuol dire: proprio la presenza dei comunisti dovrebbe rassicurare i mercati, perché la miglior ricetta per la crescita è il comunismo, come la Cina dimostra.

Si discute da mesi e anni della concorrenza cinese, come resistervi, se occorra un nuovo protezionismo europeo o italiano. Si discute da mesi e da anni della bassa crescita in Europa e del declino italiano, quali siano i modi per uscirne. Qui abbiamo una proposta originale: facciamo come i cinesi, ispiriamoci al comunismo. Avremo crescita e fiducia dei mercati.

Circa venticinque anni fa, con l’ ascesa di Deng, in Cina le strade del regime politico e del regime economico si divisero. La politica restò comunista, l’ economia divenne capitalista. Cosa in sé strana, perché il comunismo nasce proprio da una critica del capitalismo e dall’ intento di fuoriuscirne. Ancor più strana perché quello scelto in Cina fu un modello forse più simile al capitalismo del XIX che a quello del XX secolo. La svolta avvenne dopo che erano naufragati ripetuti tentativi di attuare il comunismo economico; tentativi finiti in impoverimento, oppressione, morte per inedia di decine di milioni di cinesi. Li chiameremmo tentativi ridicoli se non fossero stati soprattutto tragici.

Con la svolta di Deng, il non spento spirito mercantile dei cinesi fu liberato e l’ economia fu aperta allo scambio e all’ investimento estero. Iniziò una straordinaria ascesa economica, una trasformazione anche fisica di un Paese quasi immobile da secoli. Una vera esplosione, svoltasi sotto gli occhi di chiunque abbia regolarmente visitato la Cina negli ultimi quindici anni, come a me è accaduto: a ogni viaggio un Paese diverso, un diverso paesaggio urbano, un diverso modo di vestire, una diversa conoscenza dell’ inglese, diversi mezzi di trasporto, strumenti di lavoro, concetti usati, case abitate, libri citati.

La crescita della Cina non è trainata dalle esportazioni, come quella di Taiwan, Hong Kong, Corea, Singapore, piccoli Paesi o città-Stato dove l’ esportazione costituisce la gran parte del prodotto nazionale. La Cina non è un’ economia molto più aperta di quanto lo siano l’ americana o l’ europea. Altre cose la caratterizzano e producono terremoti nell’ economia mondiale. Prima di tutto, la combinazione di un tenore di vita molto basso con un livello di istruzione e una disciplina di lavoro molto alti (accuratezza, dedizione, cura della qualità): capacità di produrre non solo cravatte e cestini, ma anche automobili, calcolatori, televisori.

Poi la dimensione: una popolazione pari a quasi 25 Italie, venticinque. Poi ancora, la repressione politica e sociale: arricchitevi, ma lasciate stare la politica. La crescita è trainata dalla trasformazione del tenore di vita di un’ immensa popolazione, che rapidamente (ancor più dell’ Italia degli anni Cinquanta e Sessanta) si dota di abitazioni con bagno e stanza separata per il figlio, di elettrodomestici, di un mezzo di trasporto. Rapidamente, sì; ma non più di quanto crescano la produzione e la produttività. L’ effetto del fenomeno cinese sulla scena mondiale non nasce tanto da una volontà o tendenza del Paese di proiettarsi verso l’ esterno; nasce dalla mera sua dimensione. Come fu per l’ America un secolo fa. Il partito comunista, l’ oligarchia postasi alla guida della trasformazione economica, finora è riuscito a impedire due effetti. Il primo, deprecabile: che l’ esplosione di libertà economica vada fuori controllo. Difficilissimo governare un enorme Tir che corre a 150 l’ ora su una strada sconnessa. Tanti sono i modi in cui può andare fuori strada: un’ inflazione incontrollata, un esodo dalla campagna più rapido della capacità di ricezione delle città e della possibile crescita di posti di lavoro fuori dell’ agricoltura, un collasso delle deboli industrie pubbliche ereditate dal vecchio regime, una rivendicazione immediata di uguaglianza e di guarentigie sociali. Il secondo, auspicabile: che l’ esplosione di libertà si propaghi, sia pur gradualmente, dall’ economia alla sfera sociale, politica, culturale e, oggi particolarmente, religiosa. Nel 1989 fu sanguinosamente soffocato sul nascere (sulla piazza di Tienanmen) un principio di reazione a catena. Da allora non se ne sono prodotti altri, ma è difficile pensare che il fuoco dello spirito di libertà sia spento o che resti indefinitamente confinato nel recinto dell’ economia. L’ oligarchia ha mantenuto finora un ferreo controllo dell’ esplosione combinando con maestria cambiamento e repressione. Il modello cinese ricorda il dispotismo illuminato dei sovrani assoluti, forse l’ oligarchia che governò Venezia per secoli. «Cina comunista» è la magica espressione che dovrebbe rassicurare i mercati che guardano all’ Italia del futuro. Ed è chiaro che la chiave sta nell’ aggettivo, perché esso è il qualificativo comune ai due partiti politici italiani e a quello che governa la Cina, esso è il ponte tra le due politiche economiche. «Ai mercati vorrei dire…». Se crederanno alla magica frase, i mercati – che non sono molto sottili nei loro ragionamenti – si aspetteranno allora passi in queste direzioni: smantellamento dello Stato sociale, settimana lavorativa di sette giorni e di sessanta e più ore, ampia revoca delle norme di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ ambiente, restrizioni allo spostamento del luogo di residenza, drastico abbattimento di stipendi e salari. Oggi, i mercati non chiedono tanto. Non chiedono forse nemmeno un modello inglese. Si accontenterebbero di una ricetta svedese, o anche semplicemente tedesca, Paesi a governo socialista. Forse basterebbe loro che i due partiti comunisti italiani uscissero dal sogno. Nel Gattopardo, Tomasi di Lampedusa parla di «quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza». Nel parlarci di crescita, mercati e Cina, Diliberto ha mostrato prontezza di spirito.

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