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La lenta rincorsa della legalità

13 agosto 2000 @ 16:13 In 1 - La Globalizzazione, Mondo

La concorrenza sleale dei Paesi pirata


Attività umane il cui ultimo orizzonte era il confine dello Stato, e più spesso quello del comune o della provincia, ora spaziano liberamente nell’ intero mondo. La più lenta ad allargare il proprio perimetro è l’ attività di governo, per tanti aspetti la più nobile e impervia nella sfera sociale. Se questa lentezza determina, per chi opera in modo lecito, alee e costi aggiuntivi, per chi è fuorilegge essa è un premio. Mondiale è l’ illegalità, non l’ impero della legge.

Nelle cronache internazionali di questi giorni, due sequenze di notizie si confrontano e si rincorrono, quasi in un contrappunto. La prima racconta di Paesi sovrani che prosperano offrendo protezione a persone e imprese dedite, nel Paese d’ origine, ad attività illegali o criminali. La seconda riferisce le controiniziative, ancora timide, dei Paesi maggiori.

Lungo la prima sequenza si è letto che Monaco è un «centro favorevole al riciclaggio» (da un rapporto parlamentare francese); che «nella lotta contro il crimine organizzato, il Liechtenstein non si è impegnato a sufficienza negli ultimi decenni» (dichiarazione al Corriere del sovrano del Principato); che a Lugano contrabbandieri trovano collaborazione di finanzieri e magistrati; che San Marino non ha forse chiuso il suo paradiso fiscale.

Negli stessi giorni il vertice dei Sette si è dichiarato pronto ad «agire insieme» contro Paesi e territori che non cooperano nella lotta al riciclaggio; l’ Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha rafforzato la sua azione contro i regimi fiscali dannosi; i centri finanziari privi di adeguati controlli sono stati elencati per nome. Si pubblicano liste in cui compaiono la Russia, Israele, le Filippine, insieme con molti microstati o con semplici «territori». Le minacce sono blande, ma in passato si è fatto ancor meno.

Di fronte a questa doppia sequenza, non si sa se prevalga lo sdegno o la speranza. Ma entrambi sarebbero futili se ignorassero la natura del problema.

L’ illegalità internazionale non sorgerebbe se la distinzione tra il lecito, l’ illecito e il criminale fosse uniforme nel tempo e nello spazio. Così non è: e chi può allora dire quale legge, tra le molte e contraddittorie che esistono al mondo, meglio separa il lecito dall’ illecito? Le condizioni economiche e sociali, la coscienza civile, le tradizioni politiche possono ben giustificare la varietà delle leggi: Paese che vai, usanze che trovi. E poi le scelte variano nel tempo: per gli italiani, ad esempio, investire i risparmi all’ estero è stato, nel volgere di pochi anni, prima un semplice illecito, poi un crimine, poi un diritto.

La pluralità delle leggi è, per di più, un sano correttivo dell’ imperfezione umana. Siccome su moltissime questioni riesce assai difficile individuare la regola migliore, la varietà e la sperimentazione delle regole possono aiutare. È, questo, uno dei vantaggi degli Stati federali, dove le Regioni o i Länder hanno larghe autonomie legislative. Le leggi, del resto, sono anche pacifici strumenti con cui un Paese, una regione, un comune, affrontano la concorrenza di altri Paesi, regioni, comuni. Che male c’ è se Rimini e Riccione si fanno concorrenza con le circolari comunali sullo scarico dei rifiuti in mare? E promuovere le esportazioni migliorando le norme di produzione, così come attrarre investimenti esteri con la buona amministrazione e un fisco ragionevole, sono modi di competere certo preferibili allo sfruttamento coloniale, all’ invasione degli eserciti e all’ imposizione ai vinti della propria legge. Poche cose influirono sulle scelte economiche dell’ attuale governo tedesco, quanto l’ annuncio della società Allianz (il maggior gruppo assicurativo europeo) che avrebbe potuto trasferire la propria sede all’ estero se la politica verso le imprese avesse mutato corso.

Tutto bene, allora? Certamente no. Se la pluralità delle leggi non è in sé sempre dannosa e se sono sfumati i contorni di quello che, per brevità, abbiamo chiamato «il male», è pur vero che, nell’ illegalità internazionale, il nero abbonda e che molte tonalità del grigio sono troppo scure per essere accettate dalla coscienza civile. Lo avvertiamo proprio leggendo le cronache di questi giorni.

C’ è una sola via per combattere quel nero e quel grigio scuro: definire e poi imporre regole minime uniformi per tutti gli Stati sovrani. È una via faticosa e lunga, sia per definire sia, soprattutto, per imporre. Ma è l’ unica.

Per «definire», molto lavoro è stato compiuto. Diverse organizzazioni internazionali hanno dato, negli anni recenti, precisione operativa a nozioni sfuggenti quali il riciclaggio di denaro sporco o la concorrenza fiscale dannosa. Un primo criterio di giudizio è antico: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. Pagare tangenti per ottenere un appalto all’ estero è, per l’ impresa americana, un reato punibile con la revoca del diritto di operare in patria; in altri Paesi quelle stesse tangenti sono invece premiate dalla legge, che le considera fiscalmente deducibili. Altri criteri sono più tecnici e fanno appello a un senso di responsabilità internazionale: si definisce paradiso fiscale un luogo dove sono inesistenti le aliquote tributarie, lo scambio di informazioni, la trasparenza, lo svolgimento di un’ attività quale presupposto della residenza fiscale.

Molto più arduo è «imporre». Il vero ostacolo è qui, e si chiama sovranità degli Stati. Questi si dicono «sovrani», perché affermano di detenere il più alto potere su ogni loro abitante e su ogni loro ettaro; le loro istituzioni sono fondate sul mito esclusivo del più alto potere, che pervade tutta la politica, ma anche l’ economia e la cultura.

Sono oggi 188 gli Stati membri dell’ Onu e 32 di essi sono microstati con meno di 500 mila abitanti e pressoché privi di territorio, antiche repubbliche e tardivi principati, ex punti franchi coloniali e isolette amene. Questi Stati, o cosiddetti «territori» che neppure appartengono all’ Onu, sanno bene che la loro sovranità è in buona parte finta, e provano massima la tentazione di costituirsi in «paradisi» per chi non vuole pagare le tasse in casa sua; o vuole trasformare in profumati conti bancari le maleodoranti banconote ricavate da droga, corruzione e prostituzione; o desidera evitare il carcere e stare al sole.

Eppure, il cuore del problema è altrove. Il paradiso di quei paradisi è stato a lungo (e ancora è) in casa nostra, negli Stati maggiori, gli stessi che ora, sia pur timidamente, sembrano muoversi. Non mi riferisco tanto al fatto che i Paesi pirati possono operare indisturbati solo grazie a forti complicità nei Paesi in regola. Mi riferisco al fatto che il mito stesso della propria sovranità trattiene gli Stati maggiori dal mettere in discussione quella altrui perfino quando è utilizzata contro di loro.

Il numero delle questioni umane per le quali il mondo non può permettersi più di un sovrano sta crescendo rapidamente. Lungi dal distruggerla, un’ effettiva cessione di poteri nazionali ristabilisce la sovranità nella sola forma in cui può essere oggi efficace: ponendola, là dove necessario, su base mondiale.

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