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Addio a Padoa-Schioppa, padre dell’euro

19 dicembre 2010 @ 09:50 In Archivio

Da banchiere centrale ispirò la moneta unica, da ministro piegò il deficit italiano. Tra le sue frasi più famose: “Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima”, “Mandiamo fuori di casa i bamboccioni” e “La misura della ricchezza non è la misura della felicità”

di Massimo Giannini

ROMA - “Un’ambizione timida”, è stato il titolo del suo libro, uscito a maggio del 2007, quand’era ancora ministro del Tesoro dell’ultimo governo Prodi. Parlava dell’Italia, Tommaso Padoa-Schioppa, stroncato ieri da un infarto. Di “ciò che l’Italia può fare e può essere, nonostante le sue manchevolezze e i difetti che sono sotto i nostri occhi e ci rattristano ogni giorno”. E poi parlava ancora del “gusto e del dovere di una attiva partecipazione alla ‘res pubblica’, alle questioni della ‘polis’…”. Ma alla fine è stata “un’ambizione timida” anche la sua. Questo civil servant, nato e cresciuto in quella riserva della Repubblica che è sempre stata la Banca d’Italia, ha servito il Paese con la consapevolezza e la responsabilità di chi sa di essere “classe dirigente”. Ma anche con la discrezione e la “forza gentile” (per usare il titolo di un altro suo libro, questa volta dedicato all’Europa) che danno autorevolezza e credibilità alle istituzioni.

Tommaso Padoa-Schioppa è stato soprattutto questo. Un uomo delle istituzioni. Come il suo grande maestro ed amico, Carlo Azeglio Ciampi. Come Ciampi, laico e “azionista”, se non per anagrafe, quanto meno per formazione e per cultura. Come Ciampi, keynesiano ma profondamente liberale in economia. E come Ciampi, grande italiano (”il patriottismo è lecito e necessario, purché inteso e praticato in modo corretto”, era il suo motto). Ma cittadino del mondo,

e soprattutto cittadino d’Europa. Lo slogan, ricorrente, era: “Nel mondo mi sento europeo, in Europa mi sento italiano”. Insieme, i due avevano iniziato il lungo cursus honorum a Palazzo Koch, nella fucina dei civil servant che Bankitalia aveva iniziato ad essere già dagli anni ‘60, con Paolo Baffi e Guido Carli. Ciampi, più anziano, arrivò in fretta al governatorato. Padoa-Schioppa, non meno veloce, aveva scalato i gradini della rigida piramide gerarchica di Via Nazionale, entrando nel direttorio fino a diventare vice-direttore generale tra il 1984 e il 1997. Di quella stagione, la fase più esaltante è stata senz’altro la costruzione dell’edificio

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europeo, con le fondamenta dell’Unione monetaria. Padoa-Schioppa è stato, a tutti gli effetti, uno dei costituenti di Maastricht. Ciampi affidò a lui, amico personale di Jacques Delors, l’incarico di seguire i lavori preparatori del Trattato, tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta, e poi la fase cruciale delle trattative che più tardi, nel ‘98, avrebbero portato alla nascita dell’euro.

Un battesimo che “Tps” (secondo l’acronimo con la quale lo chiamavano gli amici e noi giornalisti) avrebbe voluto e dovuto vivere da governatore della Banca d’Italia, come sarebbe stato giusto per chi, come lui, aveva dedicato la parte migliore della sua vita a coltivare il sogno di un’Europa con una sola moneta. Ma quando Ciampi lasciò Via Nazionale, per diventare presidente del Consiglio nel ‘93, Padoa-Schioppa, suo erede naturale, subì uno smacco che lasciò un segno profondo. Gli si contrappose la candidatura di Lamberto Dini, e nel gioco dei veti incrociati alla fine la spuntò il terzo incomodo, Antonio Fazio. Chissà: se Tps avesse vinto quella gara, come meritava, forse un bel pezzo di storia economico-finanziaria italiana sarebbe stata diversa. Comunque lui incassò il colpo senza battere ciglio. “Le istituzioni vengono prima degli uomini”, era un’altra delle frasi che gli sentivi ripetere spesso.

Pochi anni dopo, nel ‘97, lo ripagarono con la presidenza di un’altra istituzione, la Consob. Anche da lì, sia pure in un ambito diverso, diede il suo contributo da europeista convinto: “L’Europa farà bene all’Italia”, continuava a dire, anche nei giorni in cui il primo governo Prodi introduceva l’eurotassa per raggiungere il traguardo di Maastricht, e la Casa delle Libertà di Berlusconi andava per protesta sull’Aventino, urlando “no all’euro”. “Profeti di sventura”, tuonava Tps in privato, ricordando le parole di Giovanni XXIII.

La storia gli diede ragione. E il suo incrollabile “euro-entusiasmo” fu subito premiato nel 1998, quando proprio Prodi e Ciampi, portata un’Italia riluttante nel club dei Grandi di Eurolandia, lo designarono come membro italiano nel board della neonata Bce. Ci restò fino al 2006: “Un’esperienza esaltante”, ti ripeteva con la luce negli occhi, quando lo andavi a trovare nel suo ufficio all’Eurotower di Francoforte, dove questo banchiere centrale bellunese, ma essenzialmente mitteleuropeo nei modi e nell’aspetto, si muoveva come un pesce nel suo acquario. Ecco: se ha avuto un difetto, Padoa-Schioppa, è forse questo suo sentirsi parte di una tecnocrazia illuminata che, troppo di rado, sembrava disposta a fare i conti con la realtà. Con la vita in carne ed ossa della gente comune. Lo ammetteva lui stesso, qualche volta: “Come paga i suoi errori, una classe dirigente? Solo una sua esigua componente, i professionisti della politica, è soggetta a una vera sanzione: la perdita del potere…”. I tecnocrati no. Tps avvertiva questo limite, umano e professionale. Lo colmava con l’etica della responsabilità, “dalla quale dipendono le sorti di un Paese”. Ma restava un limite.

Forse proprio per valicare questo limite, quando Prodi tornò al governo nel 2006 e gli propose di fare il ministro dell’Economia, lui accettò senza pensarci due volte. Anche se capiva e vedeva i limiti del caravanserraglio unionista: “Mi metto in gioco, ma possiamo e dobbiamo farcela”, diceva allora. In fondo, pur essendo un progressista, anche lui si definiva solo “un tecnico prestato pro-tempore alla politica”. Ma non ce la fece. La sua esperienza a Via XX Settembre fu più tormentata e meno esaltante di quella che il suo mentore, Ciampi, visse dieci anni prima. Nei due anni di turbinoso governo prodiano, Tps resse egregiamente i cordoni della spesa pubblica. Ma di quella stagione, condivisa con Visco alle Finanze, non restano impresse le virtù del rigore contabile (che pure contarono molto). Piuttosto, restano agli atti le lacrime e il sangue della prima Legge Finanziaria del 2007, che tosò molto la pecora e non riuscì a redistribuire il reddito come avrebbe dovuto, sprecando anche qualche buona occasione come la riduzione del “cuneo fiscale” per le famiglie e le imprese. E poi restano agli annali un paio di “infortuni mediatici”, tipici del tecnocrate che fatica a introiettare la sublime arte della politica, che spesso è menzogna, o dissimulazione. E così, di quel biennio si ricorda la sortita contro “i bamboccioni”, questi

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ragazzi italiani che hanno paura di affrontare il mondo, e si riparano sotto il tetto della famiglia, fuggendo dalle proprie responsabilità. Aveva ragione, Tps: era un invito ai volonterosi, non una critica ai nullafacenti (di cui qualche anno più tardi, e con ben altra volgarità, si sarebbe fatto portavoce Renato Brunetta). Ma lo disse male, e lo spiegò peggio.

E poi si ricorda una sortita sul fisco: “Pagare le tasse è bello”, perché ti fa sentire cittadino della ‘polis’, e ti da modo di partecipare al bene comune. Anche qui: aveva ragione, Tps. Ma in un Paese sciagurato come l’Italia, fatto di poeti, di santi e di evasori, una cosa del genere la puoi pensare, ma non la puoi dire. Meno che mai quando c’è, ad aspettarti al varco di ogni campagna elettorale, un leader populista e poujadista come il Cavaliere, che sull’odio per le tasse e per lo “Stato criminogeno” ha costruito buona parte della sua fortuna politica. E così, quando Prodi cadde nel 2008, e Padoa-Schioppa si ritirò in buon ordine, nessuno si rammaricò per la sua uscita di scena. E invece avremmo dovuto, a guardare come è stato allegramente dissipato il “tesoretto” che comunque Tps lasciò in

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eredità al governo di Berlusconi e Tremonti. E soprattutto dobbiamo rammaricarci oggi. Perché l’Italia, comunque la si pensi, ha perso uno dei suoi migliori servitori.



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